lunedì, gennaio 31, 2005

Storica giornata per il mondo arabo

LA FORZA DI UN POPOLO
di ANGELO PANEBIANCO (Corriere della Sera del 31/1/2005)

Di fronte alla notizia, inaspettata date le condizioni di massima insicurezza e i massacri quotidiani, secondo cui un’altissima percentuale degli aventi diritto ha votato nelle elezioni irachene è forte la tentazione di usare toni trionfalistici. Per tre ragioni... In primo luogo, perché l’affluenza alle urne è una prima clamorosa sconfitta del terrorismo (che pure ha continuato anche ieri, freneticamente, a fare stragi di civili e ancora non si sa come sia caduto l’aereo militare britannico) e un premio a coloro che, dentro e fuori l’Iraq, sulla riuscita delle elezioni avevano puntato tutto per spingere il Paese verso la pacificazione. In secondo luogo, perché l’alta affluenza significa che non solo sciiti e curdi ma anche una parte rilevante dei sunniti ha scelto, a rischio della vita, di votare. Non c’è stata quell’auto- esclusione dei sunniti dal processo elettorale su cui i terroristi puntavano per innescare la guerra civile. La maggioranza sciita che uscirà dalle urne dovrà tenerne conto nel prosieguo del processo di normalizzazione costituzionale. In terzo luogo, perché si conferma, persino in un caso estremo come quello iracheno, che le persone, quale che sia la cultura di appartenenza o le condizioni, anche terribili, in cui vivono, se e quando hanno l’opportunità di votare e di dire così la loro sul proprio destino, lo fanno, anche a sprezzo del pericolo. Il «relativismo culturale», proprio di chi pensa che la «democrazia» non possa riguardare i non occidentali, ha ricevuto ieri dagli ammirevoli elettori iracheni (come, pochi mesi fa, da quelli dell’Afghanistan) lo schiaffo che una simile visione, così intrisa di razzismo, si merita.
Naturalmente, con queste elezioni (le prime dal 1954 e le prime in assoluto in cui hanno votato le donne) non è nata in Iraq la «democrazia». Le elezioni sono solo condizione necessaria, non sufficiente, della democrazia. Il processo sarà lungo, irto di difficoltà immense. Il terrorismo continuerà a colpire in modo terribile. I Paesi confinanti (sia quelli sunniti che devono ora fare i conti con un Iraq a maggioranza sciita, sia l’Iran che cercherà di manovrare i suoi fedeli fra gli sciiti iracheni) continueranno a complottare. I rapporti fra i tre principali gruppi dell’Iraq, sciiti, sunniti e curdi, rimarranno tesi, e certamente ci saranno tanti passaggi difficili nei prossimi mesi e anni. E ci saranno anche forti spinte per fare dell’Iraq una Repubblica islamica governata dalla sharia.
Ma intanto, con queste elezioni, qualcosa di importantissimo è accaduto. Per l’Iraq ma anche per l’intero mondo islamico, e arabo in particolare. Nella storia i fenomeni di contagio sono onnipresenti e potenti. È possibile che le prime elezioni libere dell’Iraq diano, nei prossimi anni, frutti anche in altri Paesi, spingendo tanti arabi (e tanti iraniani) a chiedere con sempre maggior forza libere elezioni agli autocrati che li governano.
In Europa, c’è da scommetterci, coloro che considerano le elezioni in Iraq una farsa, un «trucco degli americani», continueranno a farsi sentire. È normale in un’Europa che, come ha denunciato ieri sul Corriere un vero eroe della libertà, Vaclav Havel, non si vergogna di riaprire le porte al tiranno Fidel Castro e a chiuderle in faccia ai suoi oppositori interni.
Non ci sono alibi. Chi trova che Fidel Castro sia una «brava persona», chi non ha gioito quando è caduta la statua di Saddam Hussein, chi ha accolto con lazzi e frizzi le elezioni in Afghanistan (e le immagini di quelle lunghe, commoventi, file di donne che, col burqa, andavano a votare), chi nei prossimi giorni ci riproporrà le menzogne sulla «resistenza» irachena si rassegni: egli non ha né gusto né rispetto della libertà.


La democrazia ha vinto, Zarkawi ha perso

La sconfitta di al Zarqawi
di Lucia Annunziata (La Stampa del 31/1/2005)

BAGHDAD. Chi ha perso davvero ieri in Iraq è il terrorista al Zarqawi: il bagno di sangue minacciato, i cecchini sui tetti, non si sono materializzati. I morti ci sono stati, è vero: ma il terrorismo ha provato di non avere né il volume di fuoco né la pressione psicologica necessari a fermare il voto...
Secondo una prima stima - i dati dovranno essere confermati - ha votato il 60 per cento degli aventi diritto, più o meno otto milioni di persone. Un bel numero se si considera il clima di terrore. Washington ha festeggiato subito la notizia e, da questo punto di vista, ci sono ragioni per tutti di celebrare: quella di ieri potrebbe rivelarsi la prima sconfitta del terrorismo per volontà popolare.
Più complessa è la valutazione del merito di questa partecipazione. Secondo le prime informazioni - ma anche queste andranno verificate - hanno votato in massa, e con allegria, i curdi del Nord e gli sciiti del Sud. Ma hanno anche votato i sunniti di quartieri «caldi» di Baghdad, quale Khadimyia, dove la convivenza con gli sciiti non faceva prevedere bene. Così come si è votato massicciamente a Sadr City dove la forte presenza di sciiti radicali lasciava pensare che il voto non avrebbe avuto successo. Non si è votato quasi per nulla nel cosiddetto triangolo sunnita. Ma anche lì, a Fallujah o a Mosul, c'è stato comunque chi è andato alle urne. Al di là delle eccezioni, i sunniti comunque - per convinzione o timore - non hanno partecipato.
La foto dell'Iraq che esce da questa consultazione elettorale è quella di una società divisa, in cui sciiti e curdi festeggiano oggi la loro ascesa al potere mentre i sunniti confermano la loro volontà di restarne fuori.
La situazione ha due facce: c'è da celebrare il coraggio e l'entusiasmo di milioni di persone che ieri hanno festeggiato la loro libertà da Saddam; ma è innegabile che senza i sunniti, anzi, con loro in armi, queste elezioni non sono risolutive. Il risultato è zoppo.
Ora tocca alla comunità internazionale scegliere come trattare questa dualità: se vincerà il trionfalismo puro, come Washington pare intenzionata a fare, o se prevarrà lo scetticismo degli europei che non sembrano intenzionati a riconoscere l'importanza del voto, avremo un blocco del movimento avviatosi ieri. Se invece si lavorerà , con diplomazia e sincerità reciproca fra i governi internazionali, per completare un processo valido ma monco, includendo i sunniti, forse l'Iraq avrà qualche chance di uscire dalla guerra.
L'alternativa sarebbe soltanto la ratifica della divisione elettorale nel precipitare della guerra civile.


domenica, gennaio 30, 2005

Ha votato poco più del 60%!!!

Direi ottimo successo di affluenza in Iraq. Il 60% degli aventi diritto ha fatto file alle urne pur di votare ma, più che altro, ha rischiato la vita pur di votare. 36 i morti fatti oggi dai mozzatori di teste guidati da Zarkawi. Questo non ha impedito alla gente di praticare un suo diritto fondamentale: scegliersi i propri governanti. La voglia di esprimere la propria preferenza è stata superiore alla paura di rimanere uccisi in qualche attentato. La gente irachena ha dimostrato coi fatti che la strada da seguire è quella democratica.

Re: No subject di febbraio

Caro Luca...
Caro Christian...
e questa volta anche Caro Enrico...

venerdì, gennaio 28, 2005

Oggi in prima pagina su Il Riformista...

Caro direttore, si può dare ospitalità ai radicali; per quello che mangiano e bevono...

Le reazioni dei partigiani (quelli veri) non si sono fatte attendere

Per Massimo Rendina, presidente dell'Anpi - Associazione nazionale partigiani italiana - Gianni Vattimo è semplicemente matto.

Sofri prova a fermare la deriva millenarista de Il Foglio

Dopo il magistrale articolo di ieri firmato da Christian Rocca compare oggi un nuovo articolo critico verso la linea de Il Foglio. Tra una lenzuolata e l'altra di apocalittici come Agnoli e Socci si inseriscono alcuni spiragli di comprensione verso le istanze referendarie. Bellissimo dunque l'articolo di Sofri. Peccato poi finire sulle lettere al direttore e imbattersi nel devotissimo Socci che inaugura la nuova campagna "adotta un embrione"!!!

giovedì, gennaio 27, 2005

Grande lettera di Marco Cappato su Il Foglio!

Al direttore - La tesi di fondo dell’articolo “La bottega della fede”, pubblicato il 25 gennaio, è che i radicali hanno deciso – per ragioni oscure, probabilmente per sadismo contro gli embrioni – di fare un atto di fede alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. In nome di tale atto di fede hanno costruito madonne come Luca Coscioni (ma cominciano a diventare tante, queste statuette malate che, invece di piangere sangue, raccolgono firme e fanno politica) e santuari, come il Congresso di Milano dell’Associazione Coscioni appena concluso. La prova provata, definitiva, del nostro atteggiamento fideistico, l’avrebbe data al Foglio il professor Vescovi: non esistono terapie a base di embrioni, esiste solo la speranza di trovarle un giorno. La nostra religione, come tutte le fedi irrazionali, non si lascia smontare con così poco. Non solo perché riteniamo di conoscere la differenza tra fede e speranza, ma anche perché, sulla parte scientifica, siamo d’accordo con Vescovi: non esiste oggi il flaconcino a base di embrioni che fa passare il cancro. Fate una ricerca, spulciate nei nostri Vangeli, e non troverete nulla di simile. Troverete invece la stessa parola usata da Vescovi: speranza. La ricerca sulle cellule staminali embrionali costituisce una speranza di cura per malattie che colpiscono 10 milioni di persone solo in Italia. Che non si tratti di una speranza remota, lo dicono non solo i 78 premi Nobel (adepti?) che hanno sottoscritto l’appello di Luca Coscioni, ma anche i risultati di laboratorio: la letteratura scientifica è piena zeppa di passi avanti concreti e positivi grazie alla ricerca sulle staminali embrionali. Non si tratta ancora di medicinali belli e pronti, ma si tratta di “conoscenza”, fondamentale anche per la ricerca sulle staminali adulte alla quale la nostra religione non è (sorprendentemente?) contraria, anzi: vorremmo che fosse finanziata con qualcosa di più dei micragnosi fondi pubblici che la Commissione nazionale cellule staminali assegna, con criteri oscuri, perloppiù ai membri della Commissione stessa. A questo punto le nostre strade (religioni?) divergono. La “vostra” dice: siccome l’embrione è una persona, questa speranza la blocchiamo (da esagitato dico: la uccidiamo) arrestando il ricercatore. La nostra dice: rischiare di salvare la vita (oggi o tra vent’anni, cambia poco) di molte persone malate in carne e ossa (a parte Coscioni che, come noto, è una statua in processione) è cosa che va fatta, subito. Oggi, la vostra religione è diventata legge (la legge 40), impedendo a quei ricercatori che (sadici come noi, e anche masochisti, perché preferiscono fallire) vorrebbero ricercare sulle cellule staminali embrionali di farlo, pena il carcere; la nostra strana religione – che lascerebbe liberi i ricercatori di ricercare o non ricercare su quelle cellule – per risolvere lo scontro non invoca miracoli, ma un confronto vero, nelle urne referendarie.
Marco Cappato

Costantino e l'impero

Il 1° febbraio sarà nelle edicole la prima biografia non autorizzata su Costantino. A firmarla Giuseppe Genna e Michele Monina!!!

Il fogliante Christian Rocca contesta la linea del direttore!

Finalmente anche all'interno de Il Foglio matura dissenso sulle scelte a difesa dell'embrione del direttore Ferrara. Rocca ci dice inoltre che nell'America chiusa, religiosa e bigotta di G.W. Bush la Casa Bianca finanzia con fondi federali la ricerca sugli embrioni (su quelli esistenti). La legge 40 sulla fecondazione assistita vieta invece qualsiasi manipolazione dell'embrione: in Italia è vietata la ricerca sulle cellule staminali embrionali punto e basta. Anche quegli embrioni che ora sono congelati e che non verranno mai impiantati (embrioni sovrannumerari) in quanto vita umana non potranno essere toccati, anzi... scusate... verranno gettati giù da un lavandino!!!

Benedetto Della Vedova Vs Mario Monti

A proposito delle sanzioni imposte a Microsoft, Della Vedova, da buon liberista, dice che "fin tanto che il mercato informatico e telematico resteranno aperti e privi di barriere legali all’accesso, interferire con esso, seppur con le migliori intenzioni, potrebbe non rivelarsi così vantaggioso nei confronti dei consumatori; e neppure portare vantaggi sul fronte della spinta all’innovazione (oggi fortissima, come si vede)."

mercoledì, gennaio 26, 2005

Bush folgorato dal libro di Sharansky

Closing the Neocon Circle George W. Bush has unveiled a new vision for U.S. foreign policy. His inspiration: Israel’s Natan Sharansky
By Michael Hirsh
Newsweek

Jan. 25 - Natan Sharansky can bestow no higher praise than to call George W. Bush an honorary “dissident.” And the Israeli cabinet minister says he is elated that the U.S. president, in his second inaugural speech last week, appeared to fully embrace Sharansky’s vision of foreign policy. “It’s clear to me that he read my book,” Sharansky, a squat cannonball of a man with a heavy Russian accent, told NEWSWEEK. “I only wish that my mentor, Andrei Sakharov, were alive to see this,” Sharansky added, referring to the Soviet nuclear scientist who risked his life and career to help open up the Soviet Union...
Bush, in his Jan. 20 address, did prove himself a dissident in one sense. When the president declared that “the survival of liberty in our land increasingly depends on the success of liberty in other lands,” he was delivering a dissent from traditional U.S. foreign policy, one that could have been lifted whole from the pages of Sharansky’s new book, “The Case for Democracy: The Power of Freedom to Overcome Tyranny and Terror.” (Public Affairs; New York). Bush, in fact, has been pressing the book on aides and friends in recent weeks and urging them to read it. And it is clear that Bush’s speech—as well as Sharansky’s influence—could have huge consequences for America in the coming years.
In Bush’s speech, drafted by chief White House speechwriter Michael Gerson with input from an old Sharansky ally dating to the Reagan years, National Security Council official Elliott Abrams, Bush in effect declared an end to a three-decade-old debate in foreign-policy circles. Fittingly, it is a debate that dates back to the fights over détente versus confrontation with the Soviet Union—and, not coincidentally, to Sharansky’s earlier incarnation as a jailed Soviet dissident. In a single, eloquent line, Bush sought to declare a truce to the old ideological struggle between U.S. government “realists”—those who believe protecting vital national interests has little to do with spreading democracy and freedom—and the so-called neoconservatives, who crusaded for these values. “America's vital interests and our deepest beliefs are now one,” he said.
In practice, of course, this battle of ideas will go on as U.S. officials wrangle over how to deal with recalcitrant regimes like Iran and North Korea. Administration officials were quick to play down the practical impact of Bush’s rhetoric, noting that the president declared the policy of spreading freedom to be “the concentrated work of generations.” But it is hard to avoid the conclusion that U.S. policy toward Iran and North Korea has now been resolved in favor of regime change--just as Bush once signed onto Sharansky’s goal of “regime change” in the Palestinian Authority in June 2002 when, in another speech heavily influenced by the Israeli, he said he would negotiate not with the autocratic Yasir Arafat but only with a newly elected Palestinian leadership.
At the very least, Bush’s rhetoric strengthens the hand of hardliners from the Pentagon and the office of Vice President Dick Cheney who see no way around the use of force or covert activity against such tyrannical regimes. As Sharansky’s old friend, onetime Pentagon advisor Richard Perle, told NEWSWEEK on Jan. 24, the current policy toward Iran has been one of “paralysis.” And, he says, the president’s speech “caused elation among dissidents in Iran. You read those words and the reaction is likely to be similar to Sharansky’s reaction when [as a dissident] he read Ronald Reagan’s words calling the Soviet Union an ‘evil empire.’”
Thanks to Bush’s speech, there may now be less willingness to cut a deal with the recalcitrant Iranian mullahs or the autocratic Kim Jong Il. A senior U.S. official denies this. He says the Bush team continues to hope for “behavioral change” like they got from Libya’s Mohammar Khaddafi--who’s off the regime change list since giving up his WMD. But in reality they don’t expect much from Tehran or Pyongyang. The danger is that yet more drift and paralysis in U.S. policy will ensue as Iran and North Korea get closer to becoming nuclear powers. Just as the hardline Sharansky has been criticized from his left for setting an impossibly high threshold for negotiating with the Palestinians—he opposes Ariel Sharon’s disengagement plan for Gaza—Bush could turn the totem of “democracy” into a convenient excuse for persisting in his stony refusal to talk directly to Iran and North Korea. There is also a danger of unintended consequences. Will the soaring rhetoric of freedom help bring regime collapse—an outcome few would mourn—or will it help to harden the nuclear ambitions of two regimes that Bush has declared to be moribund (the mullahs and Kim) but which have proved to have greater staying power than many thought?
Why is Sharansky’s influence so deep? In part because he didn’t pop out of nowhere. Sharansky has been speaking out in neocon forums for years, stiffening the spines of his former allies from the Reagan era. Chief among them is Perle who, in an interview, identified Sharansky as one of his two “heroes,” together with his old mentor, Sen. Henry “Scoop” Jackson. Their relationship is decades old. Back in the 1970s, when the Israeli was still a Russian named Anatoly Sharansky, Perle was the notorious attack dog for Jackson, fighting for Jewish emigration from the Soviet Union by pushing through the famous 1974 Jackson-Vanik bill, the opening shot fired against Cold War détente.
That was the first big battle over human rights in American foreign policy. Until then, the Cold War had been about realpolitik and detente, mainly “managing” the Soviet Union. Both men had been irrevocably changed by the experience of taking on what their mutual hero, Ronald Reagan, called the “evil empire.” Now each is in the midst of a new incarnation, fighting against Arab terror, yet they are animated by the same ideas as in the old days. Sharansky’s personal suffering under tyranny—and triumph over it—has made him a zealous campaigner for democracy in the Arab world, to the right even of his fellow Likudnik hawks in Israel. Perle and a small group of fellow neoconservatives have made it their mission to drag along Washington’s remaining “realists.”
In his book, Sharansky makes a powerful case that there is a common thread tying together the anti-Western hostility of old regimes like the Soviet Union and that of new enemies like the Islamist terrorists and their sponsors, including the Iranian mullah state and the Palestinian Authority under the late Arafat. “While the mechanics of democracy make democracies inherently peaceful, the mechanics of tyrannies make nondemocracies inherently belligerent,” he writes. Whether they are communist or Islamist, he argues, they must achieve legitimacy by creating external enemies, he argues. That’s a recipe for eternal conflict, he argues--as the autocratic Arafat proved by consistently sidestepping a peace deal.
So Sharansky’s influence represents a closing of the circle for the neocons who began battling for their ideas in the late ’70s and early ’80s. Sharansky himself says it is all a continuum, including the cast of characters, among them Abrams, Perle, Defense Department senior officials Paul Wolfowitz and Douglas Feith and Cheney’s chief of staff, Scooter Libby. “If you check their background, most of them were connected either to Senator Jackson or to the Reagan administration or to both,” says Sharansky. “And that’s why, by the way, many of them are my friends from those years. And in the last 15 years, we kept talking to one another.”
It is possible that America’s new embrace of Sharanskyism will also prove to be a recipe for eternal conflict. America will now be accused of hypocrisy every time it fails to live up to Bush’s promise “to seek and support the growth of democratic movements and institutions in every nation and culture.” In China, Russia and Taiwan, in Egypt, Saudi Arabia and Pakistan, Washington has shrunk from pursuing that policy too forthrightly, mainly because it needs friends. And Bush is unlikely to depart dramatically from this cautious course. That means, in turn, that his new statement of American policy is certain to come back to haunt him, just as Woodrow Wilson’s promise of self-determination haunted American foreign policy-makers after World War I. Especially when Natan Sharansky is out there, reminding him of his promise.
© 2005 Newsweek, Inc.


Al Zarkawi come Ferruccio Parri!

Gianni Vattimo: «Al Zarqawi è da paragonare ai partigiani della Resistenza: anche loro venivano chiamati banditi dai nazisti».

Questione legalità!

• da Il Riformista del 26 gennaio 2005, pag. 1

Pannella e i suoi pongono da tempo un problema reale: vorrebbero por mano – e sanno anche come – alle norme che regolano la raccolta di firme per la presentazione delle liste alle regionali, così permeabili da consentire nel 2000 non solo irregolarità formali, ma veri e propri brogli. Tutti i partiti sanno che hanno ragione, e che di quelle firme si fa mercimonio. Ma allora perché non dar loro una risposta? Non stiamo parlando di decidere se si può stare oppure non con i radicali in materia di bioetica (noi ci stiamo) o di liberismo economico (noi ci stiamo). Si tratta di una cosa semplice semplice, che forse non porterà a un accordo politico con loro ma porterà un beneficio alla democrazia italiana. E allora perché ieri una delegazione di Forza Italia li ha ricevuti e finora nessuna delegazione del centrosinistra l’ha fatto?

Appello della sinistra su l'Unità: "apriamo ai radicali"

Oggi grande spazio sui quotidiani per i radicali. Ora, dopo le proposte avanzate da Natale D'Amico (senatore della Margherita), arriva un appello firmato da diversi deputati e senatori del centrosinistra.

L'Elefantino fra Togliatti e il mago Otelma

Capezzone: "Mah... il mio amico Giuliano sta diventando sempre più simile al mago Otelma e suo giornale sempre più simile alla Torre di Guardia dei Testimoni di Geova. Sempre sul numero di oggi (ieri per chi legge, ndr) del Foglio, Luca Coscioni è dipinto come la Madonna che piange e Marco Pannella come un truffatore. Fausto Bertinotti, invece, è descritto come l'eroe buono della politica italiana. Diciamo che tutto si tiene e che Ferrara sta riscoprendo la sua gioventù togliattiana. Ancora una volta il direttore del Foglio ha avuto la possibilità di imboccare una via liberale e ancora una volta si è ben guardato dal farlo".

martedì, gennaio 25, 2005

Oggi il Corriere propone un grande scritto di Sharansky (tratto da The Case for Democracy)!

Il nostro mondo è tanto cambiato negli ultimi quindici anni da rendere difficile al lettore di oggi la comprensione di quanto l’Occidente fosse un tempo scettico sulla possibilità di una trasformazione democratica all’interno dell’Unione Sovietica. Nei primi anni Ottanta, c’era chi sosteneva che l’Urss potesse essere sfidata, affrontata, annientata, e chi perentoriamente rifiutava questa possibilità. L’eminente storico Arthur Schlesinger jr. diede voce all’opinione di quasi tutti i sovietologi, gli intellettuali, gli opinionisti dell’epoca affermando che «quanti negli Stati Uniti pensano che l’Unione Sovietica sia sull’orlo del collasso economico e sociale, pronta a precipitare alla prima lieve spinta, sono semplici sognatori, si ingannano»... Lo choc provocato dal crollo dell’Urss nell’aprile del 1989 rende ancor meglio l’idea. Se a pochi mesi dalla caduta del muro di Berlino nemmeno i politici più lungimiranti, gli accademici più eruditi e i giornalisti più recettivi seppero prevedere un simile evento, immaginate i pensieri del 1975. L’ipotesi che il collasso - allora assai meno imminente - dell’Unione Sovietica fosse inevitabile, sarebbe stata considerata folle da chiunque. O quasi. Nel 1969, il dissidente sovietico Andrei Amalrik scrisse un libro intitolato L’Unione Sovietica sopravviverà fino al 1984? . Amalrik, al quale avrei più tardi avuto il privilegio di impartire lezioni di inglese, spiegava che uno Stato costretto a destinare tanta parte delle proprie energie al controllo fisico e psicologico di milioni di persone non può sopravvivere all’infinito. L’indimenticabile immagine che il libro imprimeva nella mente del lettore era quella del soldato costretto a tenere il nemico sotto tiro in eterno. Le braccia iniziano a stancarsi finché il loro peso non diviene insostenibile. Esausto, il soldato abbassa l’arma e il prigioniero fugge. All’epoca della stesura del testo, tra miopi leader democratici convinti che l’Unione Sovietica avrebbe resistito per sempre e indicatori economici secondo i quali essa avrebbe presto raggiunto gli Stati Uniti, Amalrik doveva apparire un illuso. All’interno dell’Urss, invece, il suo libro non fu liquidato come il delirio di un matto. Il potere sapeva che Amalrik aveva toccato i nervi scoperti del regime. Comprendeva di essere vulnerabile a idee dissidenti: la più piccola scintilla di libertà avrebbe appiccato l’incendio all’intero sistema totalitario. Io fui arrestato nel 1977 con l’accusa di alto tradimento e attività «antisovietiche». Venni condannato, dopo un processo-farsa, a tredici anni di carcere. Nel 1984 i miei secondini del Kgb, gonfi d’orgoglio, mi ricordarono la profezia di Amalrik: «Vedi, Amalrik è morto - in un incidente d’auto in Francia nel 1980 -. E l’Urss vive!». Ma la predizione del dissidente non aveva mancato di tanto il bersaglio. Pochi mesi dopo quell’incontro nel gulag, Mikhail Gorbaciov salì al potere. Di fronte a un’amministrazione americana pronta ad affrontarlo e consapevole del fatto che il regime sovietico non aveva più la forza di mantenere il controllo dei sudditi e insieme competere con l’Occidente, a malincuore Gorbaciov attuò una politica di riforme improntata alla glasnost , la trasparenza. Quel limitato tentativo di «apertura» avviò mutamenti che sarebbero andati ben oltre le sue intenzioni. Esattamente come Amalrik aveva predetto, nell’istante in cui il regime abbassava le braccia, il popolo terrorizzato per decenni lo schiacciò. Come ha fatto un dissidente sovietico a vedere da solo quello che legioni di analisti e di policymaker in Occidente non vedevano? Forse Amalrik aveva accesso a un numero maggiore di informazioni? Era più intelligente di tutti i sovietologi messi insieme? Naturalmente no. Amalrik non era né meglio informato né più intelligente di chi non ha saputo prevedere il trapasso dell’Urss. È che diversamente da loro, capiva il potere grandioso della libertà. Noi dissidenti capivamo il potere della libertà perché le nostre vite ne erano già state trasformate. Ci aveva liberato il giorno in cui avevamo cessato di vivere in un mondo in cui «verità» e «falsità» erano - come qualsiasi altra cosa - proprietà dello Stato. Per la maggior parte di noi, questa liberazione non era finita con la condanna al carcere. Eravamo consci del fatto che i popoli che stavano dietro la Cortina di Ferro desideravano essere liberi, esprimere le loro opinioni, pubblicare i loro pensieri e, soprattutto, pensare con la loro testa. Qualcuno aveva il coraggio di esprimere apertamente questi desideri, ma la maggior parte ne aveva semplicemente paura. Tuttavia noi dissidenti eravamo certi che alla prima opportunità le masse si sarebbero prese la loro libertà: capivamo che paura e profondo desiderio di essere liberi non si escludono a vicenda. In questa situazione, la politica di accomodamento messa in atto da molti leader occidentali - indipendentemente dalle intenzioni - aveva l’effetto di rafforzare il regime sovietico. Se un simile accomodamento fosse andato avanti, l’Urss avrebbe potuto sopravvivere per altre decine d’anni. Fortunatamente in America ci furono politici che intrapresero una strada diversa. Per me, e per molti altri dissidenti, i due uomini che capirono la debolezza di uno Stato che nega la libertà ai propri cittadini, furono il senatore Henry Jackson e il presidente Ronald Reagan. Questi due leader erano persuasi che la sete di libertà avrebbe portato ad una trasformazione democratica all’interno dell’Unione Sovietica. E inoltre, che ciò era fondamentale per la sicurezza degli stessi Stati Uniti. Se Reagan e Jackson avessero ascoltato chi li criticava, chi li definiva pericolosi guerrafondai, sono convinto che centinaia di milioni di persone vivrebbero ancora in regime totalitario. Ignorarono invece le critiche, e perseguirono tenacemente una politica di attivismo che legava la posizione internazionale dell’Unione Sovietica al trattamento del suo popolo da parte del regime. La logica dell’aggancio era semplice. I sovietici avevano bisogno di molte cose dall’Occidente: legittimazione, vantaggi economici, tecnologia, eccetera. Per fargliele avere, Reagan e Jackson chiedevano che il regime cambiasse atteggiamento verso il popolo. Per quanto facile possa apparire, non era da meno di una rivoluzione nel pensiero diplomatico. Se prima di loro c’erano stati uomini di Stato che avevano cercato di legare la politica estera alla condotta internazionale di un regime antagonista, Jackson e Reagan legarono la politica dell’America alla condotta interna dei sovietici. Assediati in patria dai dissidenti che chiedevano al regime di rispettare gli impegni internazionali e pressati all’esterno da politici disposti ad agganciare la loro diplomazia ai cambiamenti interni all’Unione Sovietica, i leader sovietici furono costretti ad arrendersi. La scintilla della libertà era partita e si diffondeva a macchia d’olio bruciando l’impero. L’Occidente, ammutolito, guardava con soggezione mentre i popoli dell’est gli impartivano la lezione del potere della libertà. Abbagliati dal successo, i policymaker occidentali si sono presto scordati della lezione sovietica. Oggi, anziché riporre la propria fiducia nel potere della libertà per trasformare rapidamente gli stati totalitari, sono di nuovo impazienti di arrivare alla «coesistenza pacifica» e alla «distensione» con i regimi dittatoriali. A meno di due anni dal crollo del Muro di Berlino e immediatamente dopo la prima Guerra del Golfo, ebbi un incontro con la redazione di uno dei più influenti quotidiani americani. Sostenni che gli Stati Uniti - che avevano appena salvato l’Arabia Saudita e il Kuwait dall’estinzione - erano di fronte a un’opportunità storica. Proprio quello era il momento di usare la supremazia americana in Medio Oriente per cominciare a portare la libertà in una regione del mondo dove milioni di persone ne sono ancora prive. Gli Stati Uniti, argomentai, avevano utilizzato con efficacia la politica dell’«aggancio» per accelerare i cambiamenti all’interno dell’Unione Sovietica. Analogamente, l’America avrebbe dovuto legare la sua politica nei confronti degli Stati arabi al rispetto per i diritti umani dei loro sudditi da parte di quei regimi. Come primo passo, suggerii che la ritrovata capacità di leva dell’America nella regione venisse usata per insistere affinché l’Arabia Saudita accettasse un quotidiano di opposizione o togliesse alcune delle sue severe restrizioni sull’emigrazione. I miei interlocutori si lanciarono rapide occhiate. La loro reazione si esprimeva nei termini che avrebbe potuto facilmente usare Kissinger nel 1975 discutendo di Unione Sovietica. «Devi capire - risposero educatamente -, che i sauditi controllano le più grandi riserve petrolifere del mondo. Sono nostri alleati. L’America non si interessa di come i sauditi governino il loro Paese. La questione non è la democrazia in Arabia Saudita. È la stabilità in Occidente». L’11 settembre 2001 abbiamo visto le conseguenze di quella stabilità. Mi piacerebbe credere che quella orrenda giornata abbia sgombrato il campo alle illusione del mondo libero, e che i policymaker riconoscano che il prezzo della «stabilità» all’interno di un regime non democratico è il terrore al suo esterno. E mi piacerebbe credere che chi ha fiducia nel potere della libertà per cambiare il mondo vedrà ancora una volta prevalere le proprie idee. Ma ho seri dubbi. Ci sono, a dire il vero, segnali di speranza importanti. Mi rincuora lo sforzo a guida americana attualmente in atto nella regione per costruire società democratiche in Afghanistan e in Iraq, e anche la determinazione con cui il presidente Bush vuol vedere questo sforzo coronato dal successo. Inoltre, com’è stato per la scorsa generazione, la fiducia nel potere della libertà non è limitata a un versante soltanto dello spartiacque politico e ideologico. Al di là dell’Atlantico c’è un primo ministro di centro-sinistra, Tony Blair, che sembra impegnato non meno di Bush per una trasformazione democratica del Medio Oriente. Ma ad essere convinti della possibilità di un Medio Oriente democratico sono in pochi. In alcune zone dell’America, e quasi ovunque al di fuori di essa, le voci di scetticismo sembrano in ascesa. Molti hanno messo in dubbio che il mondo democratico abbia il diritto di imporre i propri valori in una regione che si dice li rifiuti. La maggior parte delle persone sostiene che l’intervento in Medio Oriente stia facendo più male che bene. Gli scettici della libertà sono tornati. Possono anche esprimere la loro incredulità in termini diversi rispetto alla passata generazione. Allora, con i missili nucleari puntati verso le capitali occidentali, l’attenzione era concentrata sull’incapacità del mondo libero di vincere la guerra. Oggi, sull’incapacità di vincere la pace. Comunque, le argomentazioni degli scettici suonano troppo familiari. Insistono nel dire che determinate culture e civiltà non sono compatibili con la democrazia e che determinati popoli non la desiderano. Sostengono che gli arabi abbiano bisogno e vogliano governanti dal pugno di ferro, che non abbiano mai avuto la democrazia e mai l’avranno, e che i loro valori «non sono i nostri valori». Ancora una volta viene detto che la democrazia in certe parti del mondo non sia la cosa migliore per l’Occidente. Non si faticherà ad ammettere che gli attuali regimi in Medio Oriente sopprimano la libertà, nella convinzione però che quei regimi sopprimano anche un’alternativa molto peggiore: i radicali e i fondamentalisti che potrebbero vincere le elezioni democratiche. Il messaggio è chiaro: meglio avere a che fare con una dittatura mediorientale che ci è amica piuttosto che con un regime democratico che ci è nemico. Infine, si afferma che per quanto il mondo libero possa essere reso più sicuro da una democratizzazione nella regione, le democrazie possono fare poco per dare una mano. Ci viene detto che la democrazia non si può imporre dall’esterno e che qualsiasi tentativo in questo senso non farà che provocare un ritorno di fiamma, dando ulteriore fiato all’odio. Siccome la riforma democratica può venire soltanto dall’interno, il ruolo prudente dei leader del mondo libero - si sostiene - è di prendere il meglio da una brutta situazione. Anziché cercare di creare avventatamente un nuovo Medio Oriente che è al di fuori della nostra portata e provocherà maggiore ostilità nei confronti dell’Occidente, i leader democratici vengono consigliati di lavorare con i regimi non-democratici «moderati» della regione per promuovere pace e stabilità. C’è una cosa che unisce tutte queste argomentazioni: la negazione che il potere della libertà trasformi il Medio Oriente. Io sono invece convinto che la libertà in qualsiasi luogo renderà il mondo più sicuro in ogni luogo. E sono convinto che le nazioni democratiche, guidate dagli Stati Uniti, abbiamo un ruolo cruciale da svolgere nell’estendere la libertà sul pianeta. Perseguendo politiche chiare e coerenti che legano le relazioni con i regimi non democratici al livello di libertà di cui godono i sudditi di quei regimi, il mondo libero può trasformare qualsiasi società sulla Terra, comprese quelle che dominano il paesaggio attuale del Medio Oriente. Così facendo, la tirannia può diventare, come la schiavitù, un male senza futuro. (traduzione di Monica Levy e Maria Serena Natale )

Natan (Anatholy) Sharansky è nato in Ucraina nel 1948 e si è laureato in fisica a Mosca. Sin da giovane è stato un dissidente impegnato in attività sioniste. Nel 1973 chiese al regime sovietico un visto per recarsi in Israele, subito negatogli per «ragioni di sicurezza». Quattro anni dopo venne arrestato con l’accusa di essere una spia degli Stati Uniti e condannato a 13 anni di prigione. In seguito a una campagna internazionale, le autorità sovietiche lo rilasciarono l’11 febbraio del 1986: quella stessa notte Sharansky fece il suo arrivo in Israele. Eletto presidente del neonato Forum Sionista, è stato sempre in prima linea per la causa degli ebrei sovietici. Convinto che la priorità nazionale di Israele sia favorire l’immigrazione, ha fondato il partito politico Yisrael B’Aliya . Ministro dal 1999, ha pubblicato Fear no evil , la raccolta delle sue memorie, e il recente The case of democracy insieme al giornalista Ron Dermer, dalla cui introduzione è tratto l’articolo qui pubblicato


Commemorazione dell'Olocausto all'ONU

I paesi arabi e musulmani, con l'eccezione di Afghanistan e Giordania, hanno disertato la commemorazione dell'Olocausto alle Nazioni Unite.

Dove vanno i Radicali?

Il sondaggio del sito: http://blog.radioradicale.it/blog/data/alleati/

Destra o Sinistra? Con chi allearsi?
Con Berlusconi e la Casa delle Libertà (vigilate) (552) - 55%
Con Prodi e la Gad, la Fed, o come si chiama (291) - 29%
Con nessuno, avanti da soli (158) - 16%

Dopo 1000 votanti questi i risultati. Non credevo che si propendesse così marcatamente con la CDL.


Capezzone secondo Il Foglio

Articolo a pagina 2 de Il Foglio (per niente benevolo) su Capezzone. Notevole l'aneddoto che viene ricordato: una compagna dirigente del partito radicale all'ennesima capezzonata di Capezzone durante una riunione, sbottò "Tu sei la persona al mondo che ha più urgente bisogno di un pompino!".
Comunque Daniele è il miglior segretario che i radicali italiani possano avere. Daniele è un grande... W Daniele!!!

Editoriale dell'Elefantino a proposito del messaggio di Zarkawi

La democrazia di al Zarqawi
Il discorso del Decapitatore è il perfetto contrappunto di quello di Bush
Dice il Decapitatore che “i candidati per le elezioni chiedono di essere trattati come divinità e coloro che li eleggeranno li tratteranno come dei al posto di Allah”, dunque eletti ed elettori “riceveranno la stessa condanna di blasfemia e di deviatori dall’islam”. Il documento che pubblichiamo in prima pagina sotto il titolo “gli dei delle urne” mostra in modo inequivoco, con eccezionale vigore raddoppiato dal fragore delle autobomba, la natura radicale, profondissima, religiosa dello scontro in atto sulla democrazia e sulla libertà nel mondo... Il discorso contro la “più grande bugia dell’America”, tenuto il 22 gennaio da Abu Mussab al Zarqawi, il luogotenente di Osama bin Laden in Iraq, è il perfetto contrappunto dell’oratoria di George W. Bush, della tonalità religiosa che suffragava due giorni prima, davanti al Campidoglio di Washington, l’idea di una missione liberatrice degli Stati Uniti nel mondo. Leggere per credere. La paura del partito terrorista – e il discorso del Decapitatore è palesemente la risposta strategica all’inaugurazione del secondo mandato del presidente americano – è che gli americani si “intrufolino nelle menti di molte persone con la bugia della democrazia civile” per “ingannare i cuori degli iracheni e del mondo”. Il Decapitatore capisce la democrazia e la sua clamorosa e irreversibile carica modernizzatrice molto meglio di quanto non riescano a capirla i suoi critici d’occidente. Al Zarqawi definisce alla perfezione il sistema incentrato sulla sovranità popolare, sulla libertà di pensiero e di culto religioso, sulla libertà di parola, sul governo della maggioranza, sulla separazione tra stato e chiesa, e per essere un bandito sembra un bandito che abbia letto Rousseau e Montesquieu. E che abbia perfino sfogliato Max Weber, coniatore della formula del “politeismo dei valori”, visto l’accenno ai candidati dei diversi partiti “trattati come divinità”. La democrazia, “questo moderno progetto ad opera degli uomini” (nelle parole colte del bandito), consacra la persona e i suoi diritti, “tutto il resto non ha né sacralità né valore né peso, anche se si tratta di una religione che arriva dal Signore dei Mondi”. Per noi forse no, per noi il carattere religioso della democrazia è un eccesso conservatore, ma è chiaro che per i capi del partito del terrore la democrazia è un’eresia religiosa, un nemico religioso. La democrazia come programma politico non ha valore e merita disprezzo per lo storico Eric Hobsbawm, per lo scrittore Norman Mailer, per le frotte di intellettuali che considerano le elezioni in medio oriente o in Afghanistan una “fiction”. Però ci conforta il disprezzo timorato e simmetrico del Decapitatore, la sua paura trasparente che questa “trappola ipocrita” possa camminare sulle gambe di milioni di iracheni, magari faticosamente, ma a cominciare da domenica prossima.

Loro ci odiano perchè siamo liberi

In prima pagina su Il Foglio di oggi il messaggio di Zarkawi del 22 gennaio 2005. Spiega a noi occidentali perchè ci odiano. Si legga l'articolo chi non ha mai letto una pagina di Bernard Lewis. I terroristi islamici odiano le nostre libertà, odiano la democrazia che permette ad ogni individuo di poter dire ciò che vuole e di poter professare il culto che vuole. Odiano il fatto che il popolo possa divenire sovrano.

Aspettando Mister Bonino

Delusa dal no della Consulta alla richiesta dei radicali di abrogare la legge sulla procreazione assistita, Emma Bonino si consola raccontando divertita la sua vita da single. Intervenendo a Milano a una conferenza sul Mediterraneo, la parlamentare europea dice di sentirsi molto sola nella sua casa al Cairo. «Quando arriva suo marito?» non fa che chiederle il portiere, indispettito dall’audacia di un’occidentale che va a vivere per conto suo. «Lo aspetto da cinquant’anni» ribatte lei. E lui: «Faccia venire almeno il suo fidanzato».

I nuovi disfattisti

L'introduzione di Christian Rocca al notevole saggio di Norman Podhoretz ("La guerra alla Quarta Guerra mondiale") comparso sabato su Il Foglio.

Per l'Organizzazione Mondiale delle Democrazie!

Un patto tra Europa e Stati Uniti
LA LEGA MONDIALE DELLE DEMOCRAZIE
di ANGELO PANEBIANCO

Il discorso del giuramento pronunciato da George Bush la settimana scorsa ha raccolto molti commenti scettici in Europa. La lotta dichiarata contro le tirannie in nome della libertà rinnova un antico ideale americano: la missione, benedetta da Dio, dell’America è aiutare il mondo a liberarsi delle dittature e ad accogliere ovunque le istituzioni della libertà. Poiché là dove la libertà vive attecchiscono la pace e la prosperità. Nell’epoca delle guerre asimmetriche promuovere la libertà significa, per Bush, rendere più sicuri gli Stati Uniti... Adattata alle circostanze del dopo 11 settembre, questa visione corrisponde a un ideale condiviso, in America, anche da molti politicamente distanti dal presidente repubblicano. Nell’articolo pubblicato ieri dal Corriere , lo storico Michael Ignatieff la ritiene una «buona idea». Confortata dalla teoria secondo cui, siccome le democrazie tendono a non farsi la guerra fra loro, più democrazie ci sono più il mondo diventa pacifico. E in omaggio anche all’idea secondo cui promuovere la libertà significa favorire lo sviluppo economico. Ignatieff ricorda però a Bush il dovere della coerenza: se si appoggia la causa della libertà non si possono fare eccezioni per i regimi autoritari alleati (come il Pakistan o l’Egitto). Quest’ultimo è un tema decisivo, poiché rivela, agli occhi dei critici realisti di Bush, il vero punto debole della sua visione (così come, alla fine della Prima guerra mondiale, di quella, molto simile, del presidente democratico Woodrow Wilson). Per i realisti, è semplicemente un progetto che non funziona, che può solo accrescere il disordine del mondo. Meglio sarebbe rifarsi a una antica sapienza diplomatica, che accetta il mondo così come è, e negozia anche con le tirannie per limitare i danni. E’ il punto di vista prevalente in Europa continentale. Lo scetticismo europeo (divisioni sull’Iraq a parte) ha due cause. In primo luogo, c’è una seria divergenza fra il significato che Bush (e con lui, l’America) attribuisce alla parola «libertà» e il significato prevalente fra le élites europee. Per le quali quel termine non evoca affatto, in genere, la stretta simbiosi fra aspetti economici, civili e politici della libertà individuale cui pensa Bush. Per gli europei, la «libertà economica» non è necessariamente una componente inscindibile della libertà. E’ forse soprattutto questo diverso modo di intendere la libertà che rende tanti europei così sospettosi dell’America e di quelli che essi ritengono i suoi propositi imperiali. In secondo luogo, l’idea che le tirannie vadano combattute per rendere il mondo più sicuro mal si concilia con la tradizione europea. Se le tirannie cadono per loro conto gli europei applaudono, ma salvo specialissime eccezioni (come l’Ucraina), non sono disposti ad agire per ottenere il risultato. L’Europa non ha mai maturato una visione simile a quella di Wilson o di Bush. Non ha mai pensato che esportare la libertà fosse un suo compito. Si spiega così perché anche un’altra «buona idea», strettamente collegata, quella della «lega delle democrazie» (sostenuta da molti gruppi occidentali, fra i quali, in Italia, i radicali di Pannella) stenti ad affermarsi. L’idea della «lega delle democrazie», di un blocco capace di muoversi all’unisono a favore di libertà e diritti umani, richiederebbe un rinnovato patto fra America ed Europa. Ma cospicue differenze di linguaggio e di cultura e divergenti interessi geo-politici sono di ostacolo. Come lo è il fatto che una parte dell’Europa non ha capito che il vero rischio che essa corre non è il «dominio» dell’America. Il vero rischio è che l’America, pressata da crescenti sfide su altri scacchieri, abbandoni prima o poi l’Europa.


Assolti i reclutatori di "guerriglieri"!

KAMIKAZE LIBERO di PIERO OSTELLINO
Nell' Esprit des lois , Montesquieu scrive che ci sono quattro specie di delitti, una delle quali, la quarta, è contro la sicurezza dei cittadini. Aggiunge Montesquieu che «le pene inflitte devono derivare dalla natura di ciascuna di queste specie». Non sembra proprio che il magistrato milanese che ha condannato per reati minori - fra i quali il traffico di documenti falsi - tre nordafricani, accusati di aver reclutato e mandato kamikaze in Iraq, e sospettati di aver preparato attentati in Europa, e che ha inviato alla Procura di Brescia la posizione di altri due, sia una gran lettrice. Non solo di Montesquieu, il che non sarebbe grave, ma, quel che è peggio, neppure delle più recenti normative di diritto internazionale... Nelle motivazioni della sentenza, il magistrato - ignorando palesemente la risoluzione dell’Onu 1511 del 16 ottobre 2003, che legittima la presenza della coalizione militare internazionale a garanzia della sicurezza del Paese - ritiene, infatti, che inviare combattenti e aiuti economici in Iraq non configuri il reato di terrorismo internazionale, in quanto una cosa sarebbero gli attentati alle truppe di occupazione, che rientrerebbero nella fattispecie della guerriglia, un'altra quelli contro civili che cadrebbero, invece, in quella di terrorismo. Ciò che lascia francamente esterrefatti e scandalizzati è, dunque, oltre all'ignoranza della situazione irachena e del diritto internazionale, il carattere esplicitamente politico che finisce con assumere la sentenza, in perfetta sintonia con l'estremismo di chi continua a definire «resistenti» i terroristi iracheni. Il fatto, poi, che il magistrato dichiari di non aver voluto, con ciò, legittimare anche l'attentato di Nassiriya ai nostri militari, perché quella italiana è una «missione di pace», mentre quella del resto della coalizione non lo sarebbe - con l’assurdo corollario che ammazzare gli americani o gli inglesi non sarebbe un crimine, ma un'azione di guerra - non ne attenua, bensì ne aggrava la posizione. A conferma della confusione concettuale che sembra aver presieduto alla singolare sentenza. Meno grave, in questo contesto, appare, invece, la parte della motivazione in cui si dice che non risulterebbe provato che gli imputati stessero preparando attentati anche in Europa. Qui, siamo sul terreno - dice ancora la sentenza - «riferibile alle più svariate fonti di intelligence» che non fanno testo sotto il profilo del diritto penale. L'assenza di strumenti legislativi, o quanto meno giurisprudenziali, e la conseguente difficoltà di accertare reati che sono oggetto di indagini da parte dei servizi di sicurezza, anche se non giustifica, quanto meno attenua le responsabilità del magistrato, chiamando a rispondere del caso le forze politiche. Sono note le riserve che la legislazione antiterroristica americana (il Patriot Act ) ha sollevato, anche negli Usa, in tema di tutela dei diritti civili. Ma che qualcosa si debba fare anche da noi, la sentenza di Milano lo prova con tutta evidenza.
postellino@corriere.it
Piero Ostellino


Bellissimo saggio di Micheal Ignatieff

L' impero dei diritti dell' uomo di Micheal Ignatieff

Esportare la libertà è una buona idea. I rischi arrivano dall' illusione di avere la Provvidenza al proprio fianco. L' America sarà forse impopolare ma la sua egemonia ha coinciso con una rivoluzione democratica globale. Ora dimostri umiltà e tenga conto delle opinioni del resto del mondo. La missione della Casa Bianca Indire elezioni a Kabul e Bagdad è stato un atto di coraggio: meglio i nuovi governi deboli che la stabilità autoritaria di Cina e Singapore. L' importante è non pretendere di seguire un disegno divino...

Al presidente George W. Bush piace concludere i comizi con una perorazione sulla libertà - e quindi sulla democrazia - che non sarebbe solo il regalo dell' America al mondo, ma il dono di Dio all' umanità. Il passaggio è sempre applaudito, forse perché reca la lieta implicazione che quando l' America e i suoi soldati promuovono la democrazia all' estero, stanno facendo il lavoro di Dio, come anche in Iraq. Il nome di quest' idea è provvidenzialismo democratico. È diventata la visione strutturale di un' amministrazione che pure prese il potere nel 2001 disprezzando visibilmente una pretenziosa elevazione della politica estera. Tutto quello che John Kerry ed i Democratici vi potevano opporre era un prudente realismo, e, nella misura in cui le elezioni sono state un referendum sulla visione, il prudente realismo ha perso a mani basse. Le elezioni del 2004 hanno liquidato il capitolo finale in un avvincente riallineamento della politica americana. I Democratici, un tempo eredi di grandi sognatori come Franklin Roosevelt e Woodrow Wilson, rischiano di diventare il partito dei piccoli sogni, mentre i Repubblicani, che sotto Nixon e Kissinger sembravano decisi a spogliare la politica estera da ogni alto fine morale, sono diventati il partito che vuole cambiare il mondo. Beninteso, non vi è necessariamente nulla di buono nel sognare in grande. I grandi sogni possono essere folli. E pericolosi. Un sacco di persone - tra cui molte di fede cristiana - hanno trovato allarmante che un presidente possa davvero pretendere di sapere quale sia il progetto di Dio, e ancor più spaventoso che ci possano essere cristiani evangelici sicuri per grazia divina che lo stesso George W. Bush faccia parte di quel progetto. Però, se l' aspetto provvidenziale del provvidenzialismo democratico può non piacere, resta vero che la promozione della democrazia da parte degli Stati Uniti ha dimostrato di essere una buona idea. L' America può anche essere impopolare come mai prima d' ora, ma la sua egemonia ha davvero coinciso con una rivoluzione democratica nel mondo. Per la prima volta nella storia, la maggior parte dei popoli della Terra vive in democrazia. In un' epoca pericolosa come questa, è la migliore notizia possibile, perché le democrazie, generalmente, non si combattono a vicenda e non si frantumano in guerre civili. Come risultato - e contrariamente all' opinione diffusa che il mondo stia diventando più violento - gli scontri etnici e civili stanno davvero diminuendo dai primi anni ' 90, secondo uno studio sui conflitti violenti condotto da Ted Robert Gurr all' Università del Maryland. La transizione può essere violenta - quando la democrazia giunse in Jugoslavia, il dominio della maggioranza portò per prima cosa alla pulizia etnica e ai massacri - ma una volta che le democrazie si sono stabilizzate, una volta che hanno istituito tribunali indipendenti e procedure volte ad impedire abusi, possono iniziare a promuovere gli interessi della maggioranza senza sacrificare i diritti della minoranza. La democrazia presenta altri vantaggi, alcuni dei quali illustrati in un recente e persuasivo libro intitolato The Democracy Advantage (Routledge), a cura di un trio di autori capitanati da Morton Halperin che aveva dato una mano a istituire la «comunità delle democrazie» durante il mandato di Madeleine Albright al Dipartimento di Stato. Il vero test della democrazia non è vedere come funziona in Paesi che sono già ricchi. Le nazioni più ricche sono tutte democrazie, ma si tratta di quei Paesi fortunati che hanno lungamente beneficiato di geografia favorevole, istituzioni stabili e profitti imperiali. L' esame consiste nel vedere se la democrazia funzioni nei paesi poveri privi di questi vantaggi. Alcuni analisti, come Fareed Zakaria, mettono in dubbio che si possa instaurare la democrazia in Paesi dove il reddito pro capite è inferiore ai 6000 dollari annui. Se non si può avere la democrazia finché lo sviluppo non raggiunge questo livello, e se per ottenere la crescita occorre il dispotismo, allora, secondo alcuni analisti, sarebbe saggio da parte degli Stati Uniti sostenere autocrazie orientate alla crescita come il Vietnam o Singapore. Halperin e i suoi colleghi non sono d' accordo con questa tesi di «prima sviluppo, poi democrazia». Sostengono che i vantaggi della democrazia diventano evidenti se si paragonano Paesi con reddito lordo pro capite inferiore a 2000 dollari diventati democrazie - come gli Stati baltici, il Mozambico, il Senegal e la Repubblica Dominicana - con Stati autoritari come la Siria, l' Angola, l' Uzbekistan e lo Zimbabwe. Le democrazie povere permettono più crescita, meno mortalità infantile e maggiore aspettativa di vita. E la recente immagine delle decine di migliaia di persone una notte dopo l' altra nelle gelide strade di Kiev ha ricordato agli stanchi democratici d' ogni luogo che la democrazia è l' unico sistema politico che dice a ciascun individuo: tu conti, e il tuo voto conta. Quindi, i cattivi leader non possono prendere in giro i democratici e aspettarsi di farla franca. Mentre la dignità conferita dalla democrazia piace a tutti - i sondaggi d' opinione nei paesi Arabi, per esempio, indicano una netta preferenza per la democrazia -, non tutti credono che possa mantenere le promesse. La delusione rispetto alla democrazia in America Latina sta crescendo, perché le nuove amministrazioni che hanno sostituito i governi militari negli anni ' 90 non sono riuscite a onorare la promessa di crescita. Alcuni economisti accusano le democrazie di aumentare la spesa sociale per compiacere gli elettori, per poi inguaiarsi coi deficit e non poter sostenere politiche economiche efficaci. Halperin e i suoi co-autori obiettano che le democrazie non tendono affatto a incrementare il deficit, e se talvolta possono mancare di disciplina, sono comunque in grado di evitare gli errori più gravi, come l' industrializzazione forzata della Cina che negli anni ' 50 e ' 60 costò milioni di vite. Nonostante gli sbagli commessi, i cinesi pongono un problema alla tesi che la democrazia funziona meglio dell' autocrazia. Il governo del perfido e corrotto partito unico ha gestito la spettacolare crescita economica in Cina quasi quintuplicando i redditi tra il 1982 e il 2002, da 186 a 944 dollari. Al confronto, la democratica India nello stesso periodo è riuscita soltanto a raddoppiare il reddito pro capite. La Cina continua ad attirare una quota straordinaria degli investimenti destinati ai Paesi in via di sviluppo. Il suo mercato è vastissimo, la manodopera a basso costo, e il governo mantiene stabili le cose. L' interrogativo, però, è quanto a lungo possano combinarsi crescita ed autocrazia. Oggi, il Partito Comunista non rappresenta più del 5 per cento della popolazione, la sua corruzione irrita milioni di persone e, presto o tardi, sia i vincitori che i perdenti del boom cinese chiederanno di dire la loro su come vengono governati. La democrazia potrà impiegarci un po' ad arrivare in Cina, ma se ciò non avvenisse, come farà il partito a gestire in modo pacifico le tensioni crescenti tra città e campagne, classi, regioni e settori? Nelle recenti elezioni indiane, il Bjp (Bharatiya Janata Party, partito del popolo indiano) al governo, dominato dagli Hindu, si è vantato del boom del software e dei call center guidato da Bangalore negli anni ' 90, ma gli elettori poveri, che non ne hanno mai ricevuto alcun vantaggio, lo hanno condannato alla sconfitta. Se il nuovo governo del partito del Congresso manterrà le promesse fatte a questi elettori, la democrazia mostrerà come si può armonizzare la crescita con una maggiore equità, una lezione che la Cina farebbe meglio a imparare alla svelta. Promuovere la democrazia - e non solo il buon governo - è un' idea talmente buona che Halperin e i suoi colleghi suggeriscono che la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale abbandonino la pretesa tecnocratica di dispensare solo consigli economici e inizino invece a promuovere la democrazia come prerequisito per il progresso economico. Il programma «Millennium challenge account» dell' amministrazione Bush fa proprio questo: mira a distribuire, per la prima volta, oltre 5 miliardi di dollari dell' assistenza americana all' estero a quei Paesi che «governano in modo giusto» e «investono a favore del loro popolo». Per gli americani, il problema è cosa fare quando democrazia e interesse nazionale entrano in conflitto. Parlando l' anno scorso al «National Endowment for Democracy», il presidente ha riconosciuto che l' America non potrà avere una strategia politica realizzabile contro il terrorismo islamico senza intercedere a favore della democrazia nel mondo musulmano. Il problema è che se gli Stati Uniti agiscono così, i nuovi regimi al potere dopo le elezioni in Egitto o in Pakistan potrebbero essere violentemente antiamericani. «Un uomo, un voto, una sola volta» è un' altra reale preoccupazione: gli islamici (o i despoti secolari) che si servono della democrazia elettorale per abolire la democrazia stessa. Quindi promuovere la democrazia è rischioso, ma appoggiare gli autocrati non fa che posticipare il giorno della resa dei conti con la rabbia popolare. Durante la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno spalleggiato autocrati come lo scià di Persia, mettendo l' America dalla parte sbagliata di una genuina insurrezione popolare contro la tirannia, la rivoluzione sciita del 1979. Gli Stati Uniti ne stanno ancora pagando il prezzo in terrorismo, proliferazione nucleare e ostilità. Cercare di annullare le elezioni quando vanno contro i propri interessi è un altro errore, come ha imparato la Francia appoggiando i militari algerini dopo la vittoria elettorale del Fis islamico nel 1992. Meglio avere gli islamici al potere - a fare errori, a imparare a servire l' elettorato - che sostenere autocrazie che tradiscono il loro popolo. Il partito al potere in Turchia è musulmano, e la democrazia, più la speranza di entrare in Europa, ne hanno disciplinato il radicalismo. Tuttavia, la lezione più difficile da imparare per un potente popolo democratico non è quale Paese sostenere ma come gestire le sue enormi aspettative. Gli Stati Uniti possono promuovere, incoraggiare e sostenere la democrazia, ma non possono imporla. Nel 2000, l' abile assistenza americana all' opposizione serba contribuì a rovesciare Slobodan Milosevic, ma quell' evento è destinato a restare un' eccezione. Gli Stati Uniti possono aiutare i popoli con le elezioni, ma spetta ai popoli stessi ancorare le libere istituzioni alla propria terra. Il provvidenzialismo democratico nutre l' illusione che sia l' America a guidare la storia mondiale. L' America ha un grande potere e dovrebbe usarlo, ma non sempre la storia è al servizio dei grandiosi progetti americani. Secondo i pessimisti, il provvidenzialismo democratico se l' è cavata per un pelo in Afghanistan ma incontrerà la sua Waterloo in Iraq. Gli influenti partiti sunniti chiedono già di rimandare le elezioni, temendo che il diffuso astensionismo della loro comunità si combini con la difficoltà generale nel fare svolgere le elezioni nelle aree sunnite, e porti gli sciiti a un potere eccessivo. L' insurrezione sta tentando di sopprimere la democrazia sul nascere uccidendo ogni iracheno che lavora per il governo di Allawi. Se la rivolta alla fine arrivasse alla vittoria il costo del fallimento - per tutti gli iracheni, senza tenere conto degli Stati Uniti - sarebbe enorme. Se l' Iraq l' anno prossimo non sarà riuscito a darsi istituzioni semi-legittime, e una costituzione che assegni risorse e poteri a ogni comunità che costituisce il Paese, l' invasione americana avrà solo sostituito una pericolosa dittatura con uno Stato fallito, santuario dei terroristi. I pessimisti sostengono che gli Stati Uniti stanno imponendo la democrazia in Iraq con la minaccia delle armi, ma è provato che milioni di curdi e sciiti, e pure alcuni sunniti, desiderano appassionatamente libere elezioni nel loro Paese. Non vi è ragione per cui i soldati americani e della coalizione non possano aiutarli ad assicurare un voto relativamente libero, proprio come hanno fatto in Afghanistan. Questo momento, per spaventoso e precario che sia, rappresenta l' ultima possibilità per gli iracheni di uscire dal tunnel del governo baathista e dal caos dell' incipiente guerra civile. L' amministrazione americana però deve dimostrarsi all' altezza della propria retorica. La fede in un Dio schierato a favore della libertà e della democrazia può avere contribuito a rendere il presidente Bush così superficiale riguardo ai dettagli della guerra in Iraq, e così incredibilmente sicuro nel dichiarare «missione compiuta» un' operazione appena cominciata. Un altro punto interrogativo sull' impegno americano per la democrazia all' estero è il suo atteggiamento verso la democrazia in casa propria. La democrazia è qualcosa di più che il governo della maggioranza degli stati repubblicani. La fede democratica esige anche il rispetto per la magistratura, la difesa della separazione costituzionale dei poteri, la ragionevole attenzione per le opinioni del resto dell' umanità, per non parlare dell' osservanza di trattati ratificati democraticamente come la Convenzione di Ginevra. Ultima ma non meno importante, l' umiltà che viene dalla consapevolezza di essere al servizio di un intero popolo, e non di un disegno provvidenziale che solo i veri credenti possono capire. (traduzione di Laura Toschi) Il saggio di Michael Ignatieff è lettura obbligata per orientarsi nel dibattito corrente sul conflitto di civiltà e la guerra al terrorismo. Demolendo le categorie vetuste di «destra e sinistra» come definite dalla Guerra Fredda, Ignatieff, docente ad Harvard di formazione progressista, accetta la formula dell' esportazione della democrazia, cara ai neoconservatori e l' assunto che senza libertà non ci sia pace duratura, che il presidente Bush fa derivare dallo studioso Leo Strauss. Usando i testi «liberal» di Halperin, Ignatieff ci chiama a una libertà radicale, dove il rigore nel rivendicare i diritti per gli altri non cada nel doppio standard di dittatori «amici» come in Pakistan e dittatori «nemici» come in Iraq, e protegga i diritti ovunque. E' stato meritevole battersi per il voto a Kabul e Bagdad, a patto di punire gli eccessi di Abu Ghraib, non limitare i diritti civili davanti alla minaccia del terrorismo, non mascherarsi da paladini della «Ragione assoluta». Il manifesto di Ignatieff pone questioni a destra e sinistra, per una nuova politica del XXI secolo.
L' AUTORE - Lo storico progressista e gli interventi in Afghanistan e Iraq Michael Ignatieff è nato a Toronto, in Canada, figlio di una canadese e di un immigrato russo. Si è occupato a lungo di conflitti etnici, viaggiando in Serbia, Croazia, Bosnia, Ruanda e Afghanistan. Nel 1998, dopo dieci anni di ricerche, ha pubblicato un' acclamata biografia del filosofo Isaiah Berlin. E' direttore del «Carr Center for Human Rights Policy» all' università di Harvard. La sua formazione «progressista» non gli impedito di schierarsi a favore della guerra in Afghanistan e in Iraq, arrivando a essere definito «imperialista liberal». Lui stesso parla di paradosso: «L' imperialismo è diventato la precondizione della democrazia». L' articolo pubblicato in questa pagina (© New York Times Magazine / Agenzia Luigi Volpe) fa parte del dibattito sulla guerra al terrorismo nel quale tesi speculari a quelle di Ignatieff sono sostenute da Nathan Sharansky, ex dissidente sovietico oggi ministro israeliano, in un libro («The case for democracy») molto apprezzato dal presidente Bush. Nella foto accanto, alcune donne afghane trasportano le urne delle elezioni a Kabul, il 10 ottobre 2004 I repubblicani, che sotto Nixon e Kissinger sembravano spogliare la politica estera di ogni moralità, adesso vogliono cambiare il pianeta Il programma «Millennium challenge» prevede la distribuzione di 5 miliardi di dollari ai Paesi che «governano in modo giusto» E se gli islamici arrivano al potere e aboliscono il suffragio universale? «Un uomo, un voto ma una sola volta», ecco il timore della Casa Bianca

lunedì, gennaio 24, 2005

Vivere in una tirannia / 6

CUBA - La storia di Raul Rivero arrestato per una poesia. Imprigionato perché aveva scritto una poesia. Versi che parlano di un regalo di un' amica americana: un calendario. Raul Rivero, 60 anni, giornalista e poeta cubano, aveva raccontato le suggestioni suscitate dal dono: «Il calendario di Susanna/ mi fa capire allo stesso tempo/ con precisione/ che talora/ i miei amici affrontano il freddo/ ed escono nella nebbia/ e nella neve/ nella desolazione dell' inverno». Il freddo come sinonimo di libertà: questa è Cuba, paradiso delle vacanze per alcuni, inferno per altri (300 prigionieri politici). Arrestato nell' aprile 2003, Rivero è stato condannato a 20 anni. Con lui sono finiti dietro le sbarre altri 74 dissidenti. Il 30 novembre scorso, per le precarie condizioni di salute, è stato liberato. Dei 75 condannati, sono ancora in prigione in 60.

Vivere in una tirannia / 5

ZIMBABWE - «Tifi per l' opposizione? Allora per te niente cibo» «Non sopportano la mia faccia. Come faccio a mettermi in fila per avere il sacco di mais?». I guai di M. W., 7 figli, sono cominciati nel ' 99. La colpa? «Ero un' attivista dell' opposizione a Mugabe. Sono venuti di notte, mi hanno picchiata, bruciato la casa». Sistema Zimbabwe. Paese di latifondi, dove la metà dei 14 milioni d' abitanti non ha, in certi mesi, letteralmente di che mangiare. La salvezza, sulla carta, sono gli aiuti paracadutati dal World Food Program e il mais venduto a prezzi «politici» dallo Stato. Non a tutti, però: i messi comunali provvedono prima a purgare le liste. Tifi per l' opposizione? «Sorry M.W., il tuo nome non compare». E quindi? «C' è il mercato nero, in mano ai giovani corrotti. Si trova lo stesso mais "statale", ma costa anche 300 volte di più».

Vivere in una tirannia / 4

MYANMAR - Zaw, un futuro diverso parlando di pallone. Condannato a morte dalla giunta militare birmana perché dirigeva un giornale coraggioso. Un giornale sportivo. Zaw Thet Htwe, 39 anni, del settimanale First Eleven (I Primi Undici), tifoso di calcio e di verità. Anche i Paesi sotto dittatura amano il pallone. Anche il Myanmar che vanta il numero più alto di bambini soldato al mondo (90 mila). Zaw sogna un Paese dove i pulcini non debbano esordire sul campo di battaglia. Un' inchiesta su fondi internazionali devoluti al football (e intascati dalla giunta) condanna Zaw nel 2003. Accusato di complotto contro lo Stato. Una farsa. In galera Zaw è torturato. Il 5 gennaio 2005 è liberato «per buona condotta». Una mezza buona notizia. Perché mezza? Perché è difficile che Zaw torni «a giocare» con la morte. Avere paura a vita, spesso, è la più efficace delle condanne.

Vivere in una tirannia / 3

BIELORUSSIA - Attacca il regime in Tv Picchiato per strada Minsk, Bielorussia. Pavel Sheremet, giornalista, passeggia con un' amica e collega. Due giovani si avvicinano: «Perché stai picchiando la ragazza?», apostrofano Pavel. Lui resta di sasso, poi capisce di cosa si tratta. I due uomini lo picchiano. Interviene la polizia. Sheremet viene arrestato. Viene portato in ospedale e infine rilasciato. Spiegazione: il giornalista aveva prodotto due corrosivi documentari televisivi sulla deriva dittatoriale del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko. E stava lavorando a una terza puntata. Non è la prima volta che Sheremet finisce nei guai. Nel 1997 era stato arrestato per violazione delle leggi di confine e aveva iniziato uno sciopero della fame. Una protesta che aveva richiamato l' attenzione di Human Rights Watch.

Vivere in una tirannia / 2

COREA DEL NORD - Nei campi di detenzione per «rieducare i traditori». «Mi hanno sbattuto in cella come un cane. Mi hanno pestato per quattro ore, fino a farmi svenire. Poi mi hanno rovesciato un secchio d' acqua gelata addosso, e ho sentito un ufficiale ordinare: "A questo diamogli due pillole, sennò ci schiatta"». Campo di lavoro di Onsung, Nord Corea, uno dei tanti dove il regime rieduca 200 mila «traditori». La colpa di H. Ch.? Era fuggito in Cina. L' hanno preso i poliziotti di Pechino e rispedito indietro, destinazione Onsung. «Vivevamo in 20 metri quadrati, 40-50 persone: era così stretto che dormivano in piedi». Lui, dopo 50 giorni è riuscito a scappare. Di nuovo in Cina. Lo stesso fiume Tunmen attraversato in inverno, una lastra di giaccio verso la libertà. Libero e criminale. «Se mi riprendono, finisco davanti al plotone d' esecuzione».

Vivere in una tirannia / 1

IRAN - Qui la «tortura bianca» ti segue anche da libero. Le vittime la chiamano «tortura bianca». Detenzione in isolamento, senza processo: enferadi. In Iran la usano contro gli oppositori. Luce artificiale 24 ore su 24, nessun contatto con l' esterno. Le Guantanamo persiane hanno un numero per nome. Ecco come uno scrittore (anomimo per necessità) ha raccontato gli effetti della «tortura bianca» in una cella della «Sezione 240» del carcere di Evin: «Da quando sono uscito, non riesco più a dormire senza pillole. La chiamiamo "tortura bianca" perché ottengono da te quello che vogliono senza doverti colpire. Giorno dopo giorno, qualcosa dentro di te comincia a incrinarsi. E una volta che ti spezzi, è finita. E' allora che cominci a confessare, a mentire: hanno vinto, sei passato anche tu dalla loro parte».

Primarie: la storia infinita

Finalmente Prodi passa al contrattacco. Dopo avere assistito alla vittoria di Vendola e al mancato ritiro della propria candidatura da parte di Bertinotti ora estrae dal cilindro una mossa a sorpresa: ogni candidato alle primarie dovrà avere un suo programma! A questo punto credo possano succedere due cose:
- Bertinotti ritira la sua candidatura (in maniera tale da avere maggior peso per le sue rivendicazioni in fase di stesura di programma della gad, perchè se ritira la propria candidatura il programma sarà il frutto di una mediazione fra i partiti)
- Bertinotti partecipa alle elezioni (ma in caso di sconfitta verrà sconfitto anche il suo programma e risulterà vincente il programma di Prodi. In questo caso difficilmente potrà influenzare un programma già scritto e votato a maggioranza dalla base)

venerdì, gennaio 21, 2005

Nichi il gentile, il sensibile, Nichi che legge poesie... Nichi che scrive cose proprio di cattivo gusto!

Nel Bestiario di Pansa alcune descrizioni di personaggi politici fatte da Vendola. Ecco cosa dice, ad esempio, di Emma Bonino:
"Emma è un uomo di rara furbizia e di rocambolesco cinismo". "Si veste come un monaco tibetano, ma ragiona come un funzionario modello della Cia". "Lui, il Bonino, ama la guerra condita con ironiche citazioni di Gandhi". "Commissario della polizia europea, predica la non violenza dei Mirage e dei B52". "Gli piacciono le stragi ornamentali e le carneficine umanitarie". "È un terrorista dell'Uck o della Casa Bianca, travestito da carmelitano scalzo col paracadute". "Una vipera con la faccia di colombella, il soldato Emma Bonino. Con la tessera della Nato in tasca e con il cuore nel portafoglio".


Quell'imbroglio chiamato "primarie"

Emanuele Macaluso chiama finalmente col suo nome le primarie del centrosinistra: imbroglio. Per i Ds l'unico candidato deve essere Prodi (ma allora perchè fare le primarie?), per Bertinotti invece non c'è alcun problema: Prodi è il candidato della coalizione (ma allora caro Bertinotti perchè partecipi alle primarie?)

Caro Simone eccoti servito!

"Il Movimento Nazionale Liberi Farmacisti, che rappresenta e coordina la quasi totalità delle Associazioni dei farmacisti non titolari legalmente costituite sul territorio nazionale, è un'organizzazione di professionisti che ha per scopo l'abolizione delle attuali limitazioni all'apertura delle farmacie in Italia; considerato che la legislazione vigente circa il settore farmaceutico risale al lontano 1934 ed è frutto di medioevali ed anacronistiche norme tese a difendere e perpetrare il monopolio esistente."
LIBERIAMO LE PROFESSIONI ITALIANE!


Freedom now!

Oggi Rocca su Il Foglio parla di Bush così...
Poi sul suo blog (Camillo) si chiede: Ma una persona di sinistra che legge (collegando il cervello) questo discorso [il discorso di insediamento di Bush, ndr] non dovrebbe alzarsi dalla sedia è urlare: "Cazzo, ma questo tizio è fenomenale, proprio il leader di sinistra che abbiamo sempre sognato"?(Camillo, che è di sinistra, non si è né alzato né ha urlato perché l'ha già fatto quattro anni fa)

giovedì, gennaio 20, 2005

Finalmente!!!

Anche dal centrosinistra arrivano finalmente proposte per un accordo coi Radicali.

Athletic Club 6 - Lanzarote 0: Adelante!

Grande vittoria dell'Athletic negli ottavi di Coppa del Re. Da segnalare la tripletta del nuovo talento bilbaino: Llorente (classe 1985)! Aupa Athletic!!!

La rivoluzione democratica!

Articolo dell'ottimo Maurizio Molinari sulla dottrina esposta al senato da Condoleezza Rice.
Democrazie di tutto il mondo unitevi!!!

Intervista al premio nobel Amartya Sen

«Tifavo Kerry, ma George W. è più intelligente»
L’economista Amartya Sen: «Il presidente mi ha convinto con il suo pragmatismo»

- dal Corriere della Sera di oggi 20/1/2005

ROMA - Davvero tutta la violenza del mondo ha una, e una sola, origine, la povertà? E davvero i Paesi molto poveri riescono ad agganciare la modernità solo rinviando l'appuntamento con la democrazia? A queste e a molte altre domande risponde il premio Nobel per l'economia, Amartya Sen, in visita a Roma per il ciclo «Atlante 2006, scenari per il futuro», una serie di incontri curati dal filosofo Sebastiano Maffettone. Risponde anche sui nuovi quattro anni di George W. Bush. «Tifavo Kerry, ha vinto lui. Non è la fine del mondo. Su un paio di temi, Bush ha avuto posizioni politiche molto più intelligenti del suo rivale»... Ma di fronte agli studenti e ai nuovi vertici della Luiss, dal presidente Montezemolo ai vicepresidenti Titti Oliva ed Emmanuele Emanuele, Amartya Sen, docente di economia e filosofia ad Harvard, ha scelto di parlare del nesso che lega povertà e violenza. Da questo argomento prende avvio anche la nostra conversazione. Lo dicono i politici nei loro discorsi, lo pensa la gente comune: se non ci fosse povertà, non ci sarebbe terrorismo. E' davvero così, professor Sen? «Certo, esiste una relazione tra povertà e terrorismo, ma non è così automatica. Un'eccessiva semplificazione non giova alla comprensione del legame tra i due fenomeni. La povertà è cosa terribile in sé, ma se si pensa di doverla combattere soltanto perché da lì viene la violenza, si finisce con l'indebolire, non col rafforzare, la stessa lotta alla povertà. Prendiamo il caso dell'Afghanistan. E' facile dire che è un Paese povero e devastato dalla violenza. Ma è sbagliato analizzare "quella" violenza senza tenere conto del fatto che in Afghanistan ci sono stati i talebani, c'è stata l'occupazione sovietica, senza ricordare il ruolo degli Stati Uniti in quella fase, senza riflettere sulla diffusione del fondamentalismo... Enfatizzare unicamente il nesso tra povertà e violenza sarebbe un errore. Così come è un errore guardare alla storia musulmana secondo un'ottica prevalentemente religiosa, come fosse soltanto storia islamica, mentre di quella storia fanno parte le grandi scoperte scientifiche, la matematica, la letteratura. Insomma, il fondamentalismo andrebbe analizzato in chiave politica, più che religiosa, ricordando che sì, la povertà è uno degli alimenti dell'estremismo, ma non il solo. Anche l'aver subìto un'ingiustizia alimenta il fuoco». Islam e democrazia possono procedere insieme, dunque. «I governi nascono dalle discussioni e nella società islamica c'è una lunga tradizione di discussioni pubbliche. Si discuteva alla corte di Saladino, si discuteva nella Spagna musulmana... Sarebbe un errore sostenere che l'Islam è il trionfo delle libertà, ma certo non possiamo ignorare che esistono delle democrazie alimentate da popolazioni in cui la componente musulmana è forte». Restando sul terreno della democrazia e dell'Islam, è ottimista per il dopo elezioni in Iraq? «Veramente, se penso all'Iraq mi sento piuttosto depresso. Non era quella la via da seguire, non si dovevano escludere le Nazioni Unite sin dall'inizio. Adesso è importante che tutti i Paesi si uniscano per riportare la pace in Iraq, anche se in questo modo il carico della responsabilità di quanto è accaduto verrà ridistribuito in maniera ineguale». Pensare all'Iraq la fa sentire depresso. Che cosa le suggerisce, invece, il pensiero del secondo mandato di George W.Bush? Si attende anche lei una svolta «morbida», in qualche modo anticipata dal discorso che Condoleezza Rice ha pronunciato davanti ai senatori? «La società civile americana è molto attiva e la Casa Bianca dovrà tenere conto del pubblico dibattito. Personalmente, speravo che vincesse Kerry, ma ha vinto Bush e non è la fine del mondo. Cerchiamo di essere pragmatici: ci sono terreni sui quali Bush ha avuto posizioni politiche molto più intelligenti di quelle di Kerry. Sulla delocalizzazione delle imprese, per esempio, oppure sulla competizione con Cina ed India. Su questi temi, le posizioni di Kerry erano espressione di una "economic illitteracy", vero analfabetismo economico. Durante la campagna elettorale, ci sono state forti pressioni su Bush, perché cambiasse idea e seguisse Kerry nell'opporsi all'outsourcing, per esempio. Ma lui ha resistito. Così come ha tenuto fermo il punto sulla legalizzazione dell'immigrazione». Lei le giudica arcaiche, ma le posizioni di chi teme la Cina e la delocalizzazione delle imprese sono diffuse tra politici e imprenditori, in Italia, come negli Stati Uniti. «Confermo: si tratta di un pensiero antiquato. La Cina si muove, compra, vende, sta sul mercato. Non sono certo un fondamentalista del liberalismo, ma penso che per l'Europa, oggi, sia molto più importante difendere nel mondo il concetto di democrazia. Perché è spazzatura, pura spazzatura, sostenere che la Cina è cresciuta tanto tumultuosamente grazie al suo deficit di democrazia. La crescita non è mai favorita da un clima di brutalità e i frutti in democrazia si distribuiscono meglio». D'accordo sul principio, professore. Ma intanto la Cina, politicamente bloccata, in economia vola. «Anche l'India, però, ed è un Paese democratico. Mettiamole a confronto. In India, la crescita economica è inferiore a quella cinese, ma in compenso la longevità dei suoi abitanti si è triplicata negli ultimi anni. In Cina, invece, dopo le riforme degli anni '70 non sono riusciti a mantenere lo stesso ritmo, nè sul piano delle aspettative di vita, nè su quello dell'educazione scolastica». Sta dicendo che i cinesi stanno facendo più soldi senza per questo allungarsi la vita? «Sì. Oggi solo sette anni separano l'aspettativa di vita di un indiano da quella di un cinese: 64 a 71 anni. E in Cina c'è stata anche una vistosa crescita della diseguaglianza sociale. Pure in India? Vero, ma nel mio Paese se n'è discusso, e molto, alle ultime elezioni e su questo il partito che era al potere è stato sconfitto. C'è bisogno di democrazia per riequilibrare i processi. So che può esserci un uso retorico, e strumentale, del termine democrazia, come quando si rimpiazza un governo con un altro e poi si dice che "ha trionfato la democrazia", ma questo non può impedirci di dire le cose come stanno: temere la Cina o, per il verso opposto, magnificare una dittatura perché "favorisce la crescita economica" è, in ogni caso, l'effetto di una paura irrazionale».
Maria Latella


E' arrivato il grande giorno!

Bush ora sogna un posto nella storia
Oggi l’inaugurazione a Washington. «E’ l’inizio della riconciliazione nazionale»

WASHINGTON (USA) - Un discorso storico, sulla scia di quello celebre di Kennedy, «Non chiedetevi ciò che l'America può fare per voi, ma ciò che voi potete fare per l'America», e di quello di Martin Luther King, «Io ho un sogno»... Così la Casa Bianca descrive l'appello che George Bush rivolgerà oggi alla nazione dal Campidoglio coperto di neve, in una capitale blindata come mai contro il terrorismo. Un appello all’unità analogo a quello trascinante del 20 settembre del 2001, nove giorni dopo la strage delle Torri Gemelle a Manhattan. Ma anche un appello alla diffusione del «potere redentore» della libertà e della democrazia nel mondo, a cominciare dall'Iraq e dal Medio Oriente, e alla creazione di una «società di proprietari» negli Usa, direttive che condizioneranno la politica estera e la politica interna del Bush II. In 17 minuti circa, ha affermato il portavoce Scott McClellan, il presidente ricorderà agli americani e agli alleati che «solo lavorando assieme potremo rispondere alle sfide del XXI secolo e raggiungere grandi risultati» e invocherà l'aiuto di Dio. Così conscio è George Bush che sarà il secondo mandato - dopo i contrasti e le spaccature del primo - a determinare il suo posto nella storia che da quasi un mese, ogni sera, corregge le bozze del discorso che Michael Gershen, il suo estensore, un «cristiano rinato» come lui, gli presenta, e da una settimana lo legge al mattino a un pubblico scelto. E che ieri è andato con la first lady Laura agli Archivi nazionali a meditare sui documenti pilastro dell'America, la Dichiarazione d'indipendenza, la Costituzione, il primo discorso inaugurale di George Washington. «E' concentrato, ottimista» ha detto il suo guru elettorale Karl Rove, che lo ha spinto a compiere il simbolico gesto. «E' l'inizio della riconciliazione nazionale: il presidente continuerà a delinearne le tappe nel Messaggio sullo stato dell'Unione e nel bilancio. Vuole fare dell'America la forza del bene». Ma Rove ha rifiutato di precisare se nel suo discorso Bush denuncerà «gli avamposti della tirannia», come nella sua deposizione al Senato li ha denunciati il segretario di Stato entrante Condoleezza Rice. Quasi a sottolineare quella che considera una svolta, Bush ha invitato all'inaugurazione presidenziale anche i predecessori democratici Bill Clinton e Jimmy Carter. «L’inaugurazione - ha sottolineato - testimonia della fiducia dell'America nella volontà popolare». Il presidente ha però messo sull'avviso i soldati, a cui ha dedicato una mezza giornata, che «vi è stato chiesto molto ma vi sarà chiesto ancora di più nei mesi e negli anni a venire». Per i democratici, sono segnali che, al di là dei discorsi, il Bush II non sarà meno aggressivo e unilateralista del Bush I. Un'opinione che si riflette in un sondaggio condotto in 21 Paesi dalla Bbc , in cui soltanto 3, Filippine, Polonia e India, si sono schierati per il presidente, e 16 altri, tra cui l'Italia, contro. In quest'ultimi, una media del 58 per cento ha manifestato il timore che nel Bush II le tensioni internazionali si accentuino. Ma mentre il resto del mondo avrebbe eletto presidente il candidato democratico John Kerry, l'America ha rieletto Bush. E sebbene l'indice di popolarità di George W. sia tra i più modesti, il 51-52 per cento secondo il Washington Post e Usa Today , la grande maggioranza degli americani spera «in quattro anni molto migliori di quelli trascorsi» e gli augura successo.
Ennio Caretto



Ci siamo: il nome è "Unione per la democrazia"

Prodi aveva detto: "il nome Grande alleanza democratica è troppo lungo" (25 lettere)
Ora è stato scelto "Unione per la democrazia" (21 lettere)
mah?!

Una mamma (e un papà) sempre al tuo fianco!

Non fumare che fa male, non avere un giro-vita troppo grande che l'obesità fa male, non prendere troppe medicine che fa male... non masturbarti troppo che diventi cieco (no, questa non l'hanno ancora detta!). Grazie a mamma Berlusconi e papà Sirchia per prendersi cura della nostra salute.

Quanto risparmi con la nuova Irpef?

Calcola on-line quanto devi essere riconoscente al governo Berlusconi!

The winner is... Fausto Bertinotti!

I vincitori della seconda edizione dell’Oscar della politica, premio indetto dal quotidiano Il Riformista sono: miglior politico nazionale, Fausto Bertinotti (15 voti, al secondo posto Silvio Berlusconi con 6); miglior politico internazionale, Ariel Sharon (11 voti, al secondo posto George W. Bush con 8); miglior sindaco o governatore, Walter Veltroni (12 voti, al secondo posto Roberto Formigoni con 6); migliore trasmissione politica, Porta a porta di Bruno Vespa (8 voti, al secondo posto Giuliano Ferrara per Otto e mezzo con 7); miglior spin doctor, Paolo Messa, portavoce di Marco Follini (7 voti, al secondo posto Gianni Cuperlo con 6).

mercoledì, gennaio 19, 2005

A chi andrà l'Oscar 2005 de Il Riformista?

Stasera su SkyTg24 dalle ore 22,35 in diretta la premiazione del miglior politico "riformista" dell'anno. Intanto il direttore Antonio Polito confessa per chi ha votato.

"Saremo l'antidoto anticlericale di Berlusconi"

Intervista a Benedetto Della Vedova

martedì, gennaio 18, 2005

Che i partiti e le ideologie facciano un passo indietro

Ferrara pensa che non sia il caso di ostacolare chi vuole partecipare alle regionali con proprie liste. Occorre dare più importanza alle persone e meno ai partiti, più importanza ai programmi e meno alle ideologie. Anche io la penso così.

Siamo veramente un paese allo sbando?

Anche stamattina i soliti allarmismi e le solite frasi ad effetto: "l'Italia è in condizioni disastrose", "questo governo ci sta portando alla rovina", ecc. Che sia Angius dei Ds o Rutelli della Margherita ("questo è il peggior governo degli ultimi 50 anni") l'idea che si vuol dare del paese è sempre la stessa: l'Italia è prossima ad una catastrofe. Poi però c'è qualcuno che fortunatamente prova ad essere più obiettivo ed allora abbiamo articoli come quello scritto da Edmondo Berselli sull'Espresso.

lunedì, gennaio 17, 2005

The Case for Democracy

Maurizio Molinari a proposito del libro di Sharansky

Cosa ci aspettiamo da Abu Mazen

Articolo di Nathan Sharansky, ex dissidente in Urss e autore del libro "The case for democracy" (purtroppo ancora non tradotto in Italia)

Novità di febbraio: il nuovo libro di Fukuyama!!!

Lindau manda in libreria a metà febbraio l'ultimo saggio di Francis Fukuyama, «Esportare la democrazia. State-building e l'ordine internazionale del XXI secolo», un'illuminante riflessione sull'attualita politica mondiale, nel nuovo mondo sorto sulle ceneri dell'11 settembre. Fukuyama spiega cos'è lo state-building, come si può costruire uno stato forte e solido in Medio Oriente, che combini potere e legittimità, l'unica via per combattere efficacemente il fenomeno del terrorismo che ha trovato riparo e sostegno in molti stati falliti. Una lettura appassionante per chiunque si interessi alla realtà complessa del mondo di oggi.

Come sarà il secondo mandato di G.W. Bush?

Risponde Christian Rocca

A chi mi chiede... rispondo

A chi mi chiede "cos'hanno in comune Radicali e Cdl visto che i primi si battono per cancellare una legge fatta dai secondi?" rispondo che dall'altra parte del guado le cose stanno negli stessi termini e allora cos'hanno in comune Radicali e Gad visto che la Margherita ha votato in Parlamento a favore della legge 40 sulla fecondazione assistita, visto che Romano Prodi (il leader della coalizione) è contrario allo strumento referendario e vorrebbe una modifica della legge in Parlamento (cosa auspicata anche da esponenti del Polo)?

Gli assessori dello Yorkshire a convegno!

La sinistra massimalista sabato si è radunata a Roma. Per il look dei "giovani" organizzatori ricoperti di tweed e velluto, con camice scozzesi e imboccanti pipe il giornalista del Corriere Aldo Cazzullo ha paragonato Asor Rosa e compagni a ipotetici Assessori alla cultura dello Yorkshire!
Se il rinnovamento viene dai soliti nomi legati da una vita ai partiti di sinistra: Asor Rosa, Rossanda, Occhetto, ecc non credo proprio che usciranno idee nuove.

Primarie: in Puglia vince Vendola!

Risultato a sorpresa: Vendola batte Boccia! Il candidato della Margherita che, stando alle previsioni, avrebbe dovuto vincere ampiamente in quanto sostenuto dai due partiti che hanno maggior seguito nell'elettorato è uscito invece clamorosamente sconfitto. Il fatto credo avrà conseguenze politiche e rischierà seriamente di spostare gli equilibri fra gli schieramenti: quello moderato e quello massimalista.

sabato, gennaio 15, 2005

William Safire va in pensione

In pensione Safire, falco del giornalismo Usa

- dal Corriere della Sera del 14/1/2005, di Massimo Gaggi


DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK - «Chiamatemi pure uno sciovinista unilateralista, ma io credo che i sacrifici umani ed economici fatti dall' America per far avanzare la libertà nel mondo dimostrano che il nostro carattere nazionale, politico e personale è il migliore ed è sempre più forte... E la nostra superiorità morale sarà sempre più apprezzata man mano che una versione islamica del sistema democratico metterà radici in quella parte del mondo. E' questa forza del nostro carattere nazionale, più della leadership politica o della superiorità militare, che garantisce il successo dell' America anche per il futuro e fa splendere la torcia della libertà». Abrasivo «columnist» conservatore del giornale «liberal» per eccellenza, il New York Times, a 75 anni William Safire pubblica in questi giorni i suoi ultimi articoli: un testamento politico scritto nel solito stile provocatorio e senza chiaroscuri. A partire dal giudizio sprezzante (anche se implicito) sul ruolo internazionale dell' Europa. Implacabile negli attacchi alla presidenza di Bill Clinton (che gli promise un pugno sul naso per aver definito la moglie, Hillary, «una mentitrice innata»), repubblicano e grande supporter di Bush, al quale non ha però risparmiato accuse durissime come quella di aver violato i diritti civili dopo l' attacco terroristico dell' 11 settembre, Safire è divenuto un' icona - la penna più influente della destra americana secondo Alex Jones, direttore dell' Harvard Center for the Press - non per la saggezza dei suoi giudizi, ma per la durezza delle sue staffilate e la sua imprevedibilità. I (molti) avversari lo accusano di aver formulato spesso accuse rivelatesi infondate e di aver riconosciuto molto di rado i suoi errori. Un suo pezzo può farti infuriare, mentre di un altro articolo puoi condividere ogni singola parola: una doccia scozzese di giudizi taglienti, spesso esagerati, ma nitidi, quasi mai banali, che ha legato per oltre trent' anni i lettori progressisti e aperti all' Europa del Times a un giornalista che si è sempre definito un «falco» in politica estera, un uomo di destra sulle questioni che riguardano l' America e Israele (per anni ha parlato quasi quotidianamente con Sharon,m al quale è legato da un' amicizia profonda). Nel gioco di specchi coi lettori Safire ha definito le sue colonne bisettimanali nella pagina degli editoriali come il lavoro di un Mr Hyde, essendo Dr Jekyll l' estensore della rubrica sul linguaggio che compare ogni domenica sul magazine del quotidiano newyorkese, l' altro appuntamento settimanale del giornalista. Due mesi fa Safire ha annunciato che Mr Hyde va in pensione: l' ultimo commento comparirà sul Times tra dieci giorni, il 24 gennaio. Poi (a quanto pare) rimarranno solo le pacate riflessioni linguistiche, l' analisi dei neologismi. Nulla di strano, sono numerosi i «grandi vecchi» del giornalismo americano che hanno deciso di lasciare il palcoscenico proprio in questi mesi, a partire dagli anchormen di Nbc e Cbs Tom Brokaw e Dan Rather. Ma è difficile immaginare il silenzio di una penna ancora battagliera, del gladiatore assunto nel 1973 dall' editore, Arthur Sulzberger, contro la volontà della redazione per portare una autorevole voce conservatrice nella pagina degli «op-ed». Safire, che allora scriveva i discorsi di Richard Nixon alla Casa Bianca, fu a lungo boicottato dai giornalisti del quotidiano che probabilmente non avevano digerito la definizione della categoria («nababbi che amano crogiolarsi nel pessimismo e non riescono mai a stare zitti») da lui inserita in un discorso scritto per il vice di Nixon, Spiro Agnew. Da allora molte cose sono cambiate: dopo un avvio stentato, Safire ha trovato la sua formula, un giornalismo di analisi ma partendo da una notizia, da un' indiscrezione, col telefono strumento di lavoro importante quasi quanto la penna. Ha vinto un premio Pulitzer, ha pubblicato un dizionario della politica, un romanzo su Lincoln, una spy story. Ha testimoniato per anni la sua fedeltà alla memoria di Nixon inventando una serie di interviste al fantasma del presidente scomparso. L' ultima sei mesi fa: Nixon prevedeva che Kerry avrebbe trionfato nei confronti televisivi con Bush ma che quest' ultimo avrebbe vinto le elezioni con un paio di punti di scarto grazie alla sua personalità, alla capacità di convincere gli americani. E ora nei suoi editoriali-testamento, oltre a sferzare gli alleati europei, Safire si diverte a disegnare una nuova mappa politica per l' America: «I repubblicani si divideranno nel giro di un paio d' anni come sempre accade in America quando una maggioranza è troppo ampia: i neoconservatori idealisti saranno messi in crisi dai paleoconservatori pragmatici che guideranno il partito alla sconfitta. Cominciassi oggi a fare politica sarei democratico: un partito dove oggi c' è tanto spazio, sei personaggi, sconsolati, in cerca d' autore». Massimo Gaggi


"Occidente per principianti" di Nicola Lagioia

Un romanzo che devo assolutamente leggere è Occidente per principianti di Nicola Lagioia, pubblicato da Einaudi nel 2004. Ne sento parlare bene un po' ovunque e me lo sento consigliare da chiunque.

Abu Ghraib: condannato Charles Graner

Il torturatore Charles Graner rischia fino a 15 anni di detenzione.

Novità in libreria

Tra le novità in libreria segnalate da la Repubblica anche il primo volume della autobiografia di Bob Dylan.

venerdì, gennaio 14, 2005

Presentazione del libro "Buongiorno Asia" di Claudio Landi

La S.V. e' invitata alla presentazione del libro
I nuovi giganti e la crisi dell'unilateralismo americano
di Claudio Landi
con l'autore partecipano:
Giancarlo BOSETTI, Lamberto DINI, Jas GAWRONKI, Marco PANNELLA, coordina Karim MEZRAM
Sala delle conferenze, Piazza Montecitorio 123A, Roma
Lunedi' 17 gennaio 2005, ore 17.30

L'Iran e la bomba atomica

Secondo Ottolenghi l'Europa sta sottovaltuando il problema.

Abu Mazen e la questione sicurezza

Emanuele Ottolenghi sul primo problema del neo-premier Abu Mazen

Anche dopo l'elezione di Abu Mazen gli attentati continuano

Gaza, 2 kamikaze al posto di blocco
Sei gli israeliani morti. I feriti sono una dozzina. Rivendicazione delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa e di Hamas

GAZA - Numerose persone sono state coinvolte giovedì sera alle 22,50 (le 21,50 in Italia) in un attentato compiuto da due kamizake palestinesi presso Karni, posto di frontiera nella parte centrale della striscia di Gaza. Le Brigate dei martiri di al-Aqsa (fazione armata di Fatah, il principale partito dell'Olp del neopresidente Abu Mazen), hanno parlato di «un martire che si è immolato». L'attentato è stato rivendicato congiuntamente anche da Hamas. Il sito online del quotidiano israeliano «Ha'aretz» afferma che due kamikaze che si sono fatto esplodere con almeno 150 chili di esplosivo. Altri attentatori hanno aperto il fuoco contro i militari, che hanno risposto ingaggiando una sparatoria. Due dei feriti israeliani sono morti poco dopo. Successivamente altri 4 soldati israeliani sono spirati portando il conto totale delle vittime israeliane a 6 oltre ai 2 kamikaze. I feriti sono una dozzina.In seguito due missili sono stati lanciati da un elicottero israeliano su un campo profughi nella striscia di Gaza. (www.corriere.it)

Fecondazione: per la Bonino quella della Corte è stata una scelta politica!

Intervista del Corriere della Sera all'europarlamentare Radicale Emma Bonino

Fecondazione: Capezzone scandalizzato!

Intervista al segretario dei Radicali Italiani, Daniele Capezzone.

Ancora sulle novità di casa Apple

Luca Sofri dice a quelli di Apple che sono davvero bravi!

La riscossa dei Democratici!

George Soros, il maggior finanziatore dei Democratici a stelle e strisce, alla conquista della Right Nation!

E' cominciato il processo alle "Bestie di Satana"

Il giudice nega l’esorcista alle «Bestie di Satana»

- da www.lastampa.it

BUSTO ARSIZIO. Bestie di Satana, arriva il processo. Il giudice dell’udienza preliminare ha deciso cinque rinvii a giudizio e ha accolto tre riti abbreviati. Nessun altro sconto, nessun’altra concessione per gli 8 ragazzi che uccisero tre loro coetanei e ne indussero un quarto al suicidio. Il gup ha anche respinto la richiesta di far intervenire in aula un esorcista. Era stato chiesto dall’avvocato Guglielmo Gulotta per il ventisettenne Eros Monterosso, per stabilire quanto e se il Diavolo ha condizionato le azioni degli imputati. Una richiesta giudicata dal magistrato «sconcertante»: «La possessione demoniaca, a tutto voler concedere in relazione all’azione del demonio, non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento processuale».

L'editoria nel 2004

La caduta dei signori del bestseller
In «Tirature» il bilancio del 2004: flessione dei grandi, avanzano i classici allegati ai quotidiani

- dal Corriere della Sera del 13/1/2005, di De Rienzo Giorgio

Puntuale al suo appuntamento annuale, in compagnia di una fitta schiera di analisti, Vittorio Spinazzola propone con Tirature 05 (Il Saggiatore e Fondazione Mondadori, pagine 256, euro 20, in uscita il 18 gennaio) il bilancio sull' editoria del 2004....
L' attenzione è puntata qui sui «Giovani scrittori e personaggi giovani». Con franchezza non mi pare un obiettivo così essenziale. Non mi sembra infatti che i giovani siano stati protagonisti nell' anno letterario appena trascorso né per «tirature», né tanto meno per valore. Del resto - lo sottolinea giustamente Gianni Turchetta proprio nel saggio introduttivo - i «cannibali più mordenti» all' esordio, ora «non mordono più». Il loro tentativo di inventare un linguaggio pirotecnico fatto di uno sciatto mixage di gergo e citazioni pseudodotte, di reperti televisivi e pubblicitari, si è andato imborghesendo in una scrittura trash quasi di routine. Un solo esempio. «Mi spiace molto - scrive Turchetta - ma un libro come Kamikaze d' Occidente di Tiziano Scarpa non punge né diverte, e bisogna proprio imporsi uno sforzo di etica professionale per leggerlo fino in fondo». Certo c' è stato il caso di 100 colpi di spazzola... dell' adolescente Melissa P. che ha svettato a lungo nelle classifiche. Disgrazie di questo genere capitano talvolta per un capriccio strano (e incomprensibile) nel mercato editoriale, ma non fanno storia, come isolati (lo sottolinea lo stesso Spinazzola) sono rimasti - in passato - i successi fulminanti di altri libri di giovani mediocri come Porci con le ali di Rocco e Antonia e Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi. Piuttosto il 2004 è stato caratterizzato dalla flessione nelle vendite di piccoli e grandi signori dei best-seller: poco hanno stazionato nelle classifiche autori come Patricia Cornwell e Stephen King o come (da noi) Sveva Casati Modignani. Ci sono stati i flop di Tabucchi ed Eco, le modeste performance di Baricco e De Carlo, a dispetto di sontuose strategie di marketing. Come osserva Giuseppe Gallo nel suo «almanacco delle classifiche», l' editoria mostra una «preoccupante carenza di intuito». Pare essersi adagiata in una sorta di pigrizia, ha preferito spremere pochi quattrini da libri di autori consumati, piuttosto che indaffararsi a cercarne di nuovi. Non a caso il libro più venduto in assoluto è stato Il codice da Vinci di Dan Brown, proposto notoriamente da un agente letterario: un ottimo prodotto di artigianato letterario che si è imposto soprattutto attraverso il fenomeno del passaparola dei lettori, come dimostra l' andamento della sua presenza nelle classifiche, all' inizio discreta e poi via via sempre più vistosa. In piccolo, il fenomeno si è riproposto per il «giallo all' italiana», anche al di là del caso atipico di Camilleri. Buon riscontro di pubblico hanno infatti avuto Lucarelli e Carlotto. Ci sono stati gli exploit di scrittori magistrati e poliziotti come Carofiglio, De Cataldo e Giuttari, con prodotti tutti ben costruiti nella struttura e con esiti talvolta (per Carofiglio) persino di raffinata scrittura. Ma il 2004 è stato soprattutto l' anno che ha visto il nascere di un' editoria popolare d' alto livello: con i classici dell' Otto e Novecento allegati ai grandi quotidiani. Parliamo di vendite medie che superano le duecentomila copie per la poesia e le trecentomila per la prosa. Questo mercato ha catturato sicuramente molti nuovi lettori forti per la letteratura. Forse la qualità torna dunque a premiare. È un segno di attenzione che dovrebbe far riflettere gli editori, come il successo delle letture pubbliche di poesia che ha raccolto platee sempre affollate, sia nei grandi centri urbani che nelle città di provincia. Giorgio De Rienzo