lunedì, gennaio 31, 2005

Storica giornata per il mondo arabo

LA FORZA DI UN POPOLO
di ANGELO PANEBIANCO (Corriere della Sera del 31/1/2005)

Di fronte alla notizia, inaspettata date le condizioni di massima insicurezza e i massacri quotidiani, secondo cui un’altissima percentuale degli aventi diritto ha votato nelle elezioni irachene è forte la tentazione di usare toni trionfalistici. Per tre ragioni... In primo luogo, perché l’affluenza alle urne è una prima clamorosa sconfitta del terrorismo (che pure ha continuato anche ieri, freneticamente, a fare stragi di civili e ancora non si sa come sia caduto l’aereo militare britannico) e un premio a coloro che, dentro e fuori l’Iraq, sulla riuscita delle elezioni avevano puntato tutto per spingere il Paese verso la pacificazione. In secondo luogo, perché l’alta affluenza significa che non solo sciiti e curdi ma anche una parte rilevante dei sunniti ha scelto, a rischio della vita, di votare. Non c’è stata quell’auto- esclusione dei sunniti dal processo elettorale su cui i terroristi puntavano per innescare la guerra civile. La maggioranza sciita che uscirà dalle urne dovrà tenerne conto nel prosieguo del processo di normalizzazione costituzionale. In terzo luogo, perché si conferma, persino in un caso estremo come quello iracheno, che le persone, quale che sia la cultura di appartenenza o le condizioni, anche terribili, in cui vivono, se e quando hanno l’opportunità di votare e di dire così la loro sul proprio destino, lo fanno, anche a sprezzo del pericolo. Il «relativismo culturale», proprio di chi pensa che la «democrazia» non possa riguardare i non occidentali, ha ricevuto ieri dagli ammirevoli elettori iracheni (come, pochi mesi fa, da quelli dell’Afghanistan) lo schiaffo che una simile visione, così intrisa di razzismo, si merita.
Naturalmente, con queste elezioni (le prime dal 1954 e le prime in assoluto in cui hanno votato le donne) non è nata in Iraq la «democrazia». Le elezioni sono solo condizione necessaria, non sufficiente, della democrazia. Il processo sarà lungo, irto di difficoltà immense. Il terrorismo continuerà a colpire in modo terribile. I Paesi confinanti (sia quelli sunniti che devono ora fare i conti con un Iraq a maggioranza sciita, sia l’Iran che cercherà di manovrare i suoi fedeli fra gli sciiti iracheni) continueranno a complottare. I rapporti fra i tre principali gruppi dell’Iraq, sciiti, sunniti e curdi, rimarranno tesi, e certamente ci saranno tanti passaggi difficili nei prossimi mesi e anni. E ci saranno anche forti spinte per fare dell’Iraq una Repubblica islamica governata dalla sharia.
Ma intanto, con queste elezioni, qualcosa di importantissimo è accaduto. Per l’Iraq ma anche per l’intero mondo islamico, e arabo in particolare. Nella storia i fenomeni di contagio sono onnipresenti e potenti. È possibile che le prime elezioni libere dell’Iraq diano, nei prossimi anni, frutti anche in altri Paesi, spingendo tanti arabi (e tanti iraniani) a chiedere con sempre maggior forza libere elezioni agli autocrati che li governano.
In Europa, c’è da scommetterci, coloro che considerano le elezioni in Iraq una farsa, un «trucco degli americani», continueranno a farsi sentire. È normale in un’Europa che, come ha denunciato ieri sul Corriere un vero eroe della libertà, Vaclav Havel, non si vergogna di riaprire le porte al tiranno Fidel Castro e a chiuderle in faccia ai suoi oppositori interni.
Non ci sono alibi. Chi trova che Fidel Castro sia una «brava persona», chi non ha gioito quando è caduta la statua di Saddam Hussein, chi ha accolto con lazzi e frizzi le elezioni in Afghanistan (e le immagini di quelle lunghe, commoventi, file di donne che, col burqa, andavano a votare), chi nei prossimi giorni ci riproporrà le menzogne sulla «resistenza» irachena si rassegni: egli non ha né gusto né rispetto della libertà.