Oggi il Corriere propone un grande scritto di Sharansky (tratto da The Case for Democracy)!
Il nostro mondo è tanto cambiato negli ultimi quindici anni da rendere difficile al lettore di oggi la comprensione di quanto l’Occidente fosse un tempo scettico sulla possibilità di una trasformazione democratica all’interno dell’Unione Sovietica. Nei primi anni Ottanta, c’era chi sosteneva che l’Urss potesse essere sfidata, affrontata, annientata, e chi perentoriamente rifiutava questa possibilità. L’eminente storico Arthur Schlesinger jr. diede voce all’opinione di quasi tutti i sovietologi, gli intellettuali, gli opinionisti dell’epoca affermando che «quanti negli Stati Uniti pensano che l’Unione Sovietica sia sull’orlo del collasso economico e sociale, pronta a precipitare alla prima lieve spinta, sono semplici sognatori, si ingannano»... Lo choc provocato dal crollo dell’Urss nell’aprile del 1989 rende ancor meglio l’idea. Se a pochi mesi dalla caduta del muro di Berlino nemmeno i politici più lungimiranti, gli accademici più eruditi e i giornalisti più recettivi seppero prevedere un simile evento, immaginate i pensieri del 1975. L’ipotesi che il collasso - allora assai meno imminente - dell’Unione Sovietica fosse inevitabile, sarebbe stata considerata folle da chiunque. O quasi. Nel 1969, il dissidente sovietico Andrei Amalrik scrisse un libro intitolato L’Unione Sovietica sopravviverà fino al 1984? . Amalrik, al quale avrei più tardi avuto il privilegio di impartire lezioni di inglese, spiegava che uno Stato costretto a destinare tanta parte delle proprie energie al controllo fisico e psicologico di milioni di persone non può sopravvivere all’infinito. L’indimenticabile immagine che il libro imprimeva nella mente del lettore era quella del soldato costretto a tenere il nemico sotto tiro in eterno. Le braccia iniziano a stancarsi finché il loro peso non diviene insostenibile. Esausto, il soldato abbassa l’arma e il prigioniero fugge. All’epoca della stesura del testo, tra miopi leader democratici convinti che l’Unione Sovietica avrebbe resistito per sempre e indicatori economici secondo i quali essa avrebbe presto raggiunto gli Stati Uniti, Amalrik doveva apparire un illuso. All’interno dell’Urss, invece, il suo libro non fu liquidato come il delirio di un matto. Il potere sapeva che Amalrik aveva toccato i nervi scoperti del regime. Comprendeva di essere vulnerabile a idee dissidenti: la più piccola scintilla di libertà avrebbe appiccato l’incendio all’intero sistema totalitario. Io fui arrestato nel 1977 con l’accusa di alto tradimento e attività «antisovietiche». Venni condannato, dopo un processo-farsa, a tredici anni di carcere. Nel 1984 i miei secondini del Kgb, gonfi d’orgoglio, mi ricordarono la profezia di Amalrik: «Vedi, Amalrik è morto - in un incidente d’auto in Francia nel 1980 -. E l’Urss vive!». Ma la predizione del dissidente non aveva mancato di tanto il bersaglio. Pochi mesi dopo quell’incontro nel gulag, Mikhail Gorbaciov salì al potere. Di fronte a un’amministrazione americana pronta ad affrontarlo e consapevole del fatto che il regime sovietico non aveva più la forza di mantenere il controllo dei sudditi e insieme competere con l’Occidente, a malincuore Gorbaciov attuò una politica di riforme improntata alla glasnost , la trasparenza. Quel limitato tentativo di «apertura» avviò mutamenti che sarebbero andati ben oltre le sue intenzioni. Esattamente come Amalrik aveva predetto, nell’istante in cui il regime abbassava le braccia, il popolo terrorizzato per decenni lo schiacciò. Come ha fatto un dissidente sovietico a vedere da solo quello che legioni di analisti e di policymaker in Occidente non vedevano? Forse Amalrik aveva accesso a un numero maggiore di informazioni? Era più intelligente di tutti i sovietologi messi insieme? Naturalmente no. Amalrik non era né meglio informato né più intelligente di chi non ha saputo prevedere il trapasso dell’Urss. È che diversamente da loro, capiva il potere grandioso della libertà. Noi dissidenti capivamo il potere della libertà perché le nostre vite ne erano già state trasformate. Ci aveva liberato il giorno in cui avevamo cessato di vivere in un mondo in cui «verità» e «falsità» erano - come qualsiasi altra cosa - proprietà dello Stato. Per la maggior parte di noi, questa liberazione non era finita con la condanna al carcere. Eravamo consci del fatto che i popoli che stavano dietro la Cortina di Ferro desideravano essere liberi, esprimere le loro opinioni, pubblicare i loro pensieri e, soprattutto, pensare con la loro testa. Qualcuno aveva il coraggio di esprimere apertamente questi desideri, ma la maggior parte ne aveva semplicemente paura. Tuttavia noi dissidenti eravamo certi che alla prima opportunità le masse si sarebbero prese la loro libertà: capivamo che paura e profondo desiderio di essere liberi non si escludono a vicenda. In questa situazione, la politica di accomodamento messa in atto da molti leader occidentali - indipendentemente dalle intenzioni - aveva l’effetto di rafforzare il regime sovietico. Se un simile accomodamento fosse andato avanti, l’Urss avrebbe potuto sopravvivere per altre decine d’anni. Fortunatamente in America ci furono politici che intrapresero una strada diversa. Per me, e per molti altri dissidenti, i due uomini che capirono la debolezza di uno Stato che nega la libertà ai propri cittadini, furono il senatore Henry Jackson e il presidente Ronald Reagan. Questi due leader erano persuasi che la sete di libertà avrebbe portato ad una trasformazione democratica all’interno dell’Unione Sovietica. E inoltre, che ciò era fondamentale per la sicurezza degli stessi Stati Uniti. Se Reagan e Jackson avessero ascoltato chi li criticava, chi li definiva pericolosi guerrafondai, sono convinto che centinaia di milioni di persone vivrebbero ancora in regime totalitario. Ignorarono invece le critiche, e perseguirono tenacemente una politica di attivismo che legava la posizione internazionale dell’Unione Sovietica al trattamento del suo popolo da parte del regime. La logica dell’aggancio era semplice. I sovietici avevano bisogno di molte cose dall’Occidente: legittimazione, vantaggi economici, tecnologia, eccetera. Per fargliele avere, Reagan e Jackson chiedevano che il regime cambiasse atteggiamento verso il popolo. Per quanto facile possa apparire, non era da meno di una rivoluzione nel pensiero diplomatico. Se prima di loro c’erano stati uomini di Stato che avevano cercato di legare la politica estera alla condotta internazionale di un regime antagonista, Jackson e Reagan legarono la politica dell’America alla condotta interna dei sovietici. Assediati in patria dai dissidenti che chiedevano al regime di rispettare gli impegni internazionali e pressati all’esterno da politici disposti ad agganciare la loro diplomazia ai cambiamenti interni all’Unione Sovietica, i leader sovietici furono costretti ad arrendersi. La scintilla della libertà era partita e si diffondeva a macchia d’olio bruciando l’impero. L’Occidente, ammutolito, guardava con soggezione mentre i popoli dell’est gli impartivano la lezione del potere della libertà. Abbagliati dal successo, i policymaker occidentali si sono presto scordati della lezione sovietica. Oggi, anziché riporre la propria fiducia nel potere della libertà per trasformare rapidamente gli stati totalitari, sono di nuovo impazienti di arrivare alla «coesistenza pacifica» e alla «distensione» con i regimi dittatoriali. A meno di due anni dal crollo del Muro di Berlino e immediatamente dopo la prima Guerra del Golfo, ebbi un incontro con la redazione di uno dei più influenti quotidiani americani. Sostenni che gli Stati Uniti - che avevano appena salvato l’Arabia Saudita e il Kuwait dall’estinzione - erano di fronte a un’opportunità storica. Proprio quello era il momento di usare la supremazia americana in Medio Oriente per cominciare a portare la libertà in una regione del mondo dove milioni di persone ne sono ancora prive. Gli Stati Uniti, argomentai, avevano utilizzato con efficacia la politica dell’«aggancio» per accelerare i cambiamenti all’interno dell’Unione Sovietica. Analogamente, l’America avrebbe dovuto legare la sua politica nei confronti degli Stati arabi al rispetto per i diritti umani dei loro sudditi da parte di quei regimi. Come primo passo, suggerii che la ritrovata capacità di leva dell’America nella regione venisse usata per insistere affinché l’Arabia Saudita accettasse un quotidiano di opposizione o togliesse alcune delle sue severe restrizioni sull’emigrazione. I miei interlocutori si lanciarono rapide occhiate. La loro reazione si esprimeva nei termini che avrebbe potuto facilmente usare Kissinger nel 1975 discutendo di Unione Sovietica. «Devi capire - risposero educatamente -, che i sauditi controllano le più grandi riserve petrolifere del mondo. Sono nostri alleati. L’America non si interessa di come i sauditi governino il loro Paese. La questione non è la democrazia in Arabia Saudita. È la stabilità in Occidente». L’11 settembre 2001 abbiamo visto le conseguenze di quella stabilità. Mi piacerebbe credere che quella orrenda giornata abbia sgombrato il campo alle illusione del mondo libero, e che i policymaker riconoscano che il prezzo della «stabilità» all’interno di un regime non democratico è il terrore al suo esterno. E mi piacerebbe credere che chi ha fiducia nel potere della libertà per cambiare il mondo vedrà ancora una volta prevalere le proprie idee. Ma ho seri dubbi. Ci sono, a dire il vero, segnali di speranza importanti. Mi rincuora lo sforzo a guida americana attualmente in atto nella regione per costruire società democratiche in Afghanistan e in Iraq, e anche la determinazione con cui il presidente Bush vuol vedere questo sforzo coronato dal successo. Inoltre, com’è stato per la scorsa generazione, la fiducia nel potere della libertà non è limitata a un versante soltanto dello spartiacque politico e ideologico. Al di là dell’Atlantico c’è un primo ministro di centro-sinistra, Tony Blair, che sembra impegnato non meno di Bush per una trasformazione democratica del Medio Oriente. Ma ad essere convinti della possibilità di un Medio Oriente democratico sono in pochi. In alcune zone dell’America, e quasi ovunque al di fuori di essa, le voci di scetticismo sembrano in ascesa. Molti hanno messo in dubbio che il mondo democratico abbia il diritto di imporre i propri valori in una regione che si dice li rifiuti. La maggior parte delle persone sostiene che l’intervento in Medio Oriente stia facendo più male che bene. Gli scettici della libertà sono tornati. Possono anche esprimere la loro incredulità in termini diversi rispetto alla passata generazione. Allora, con i missili nucleari puntati verso le capitali occidentali, l’attenzione era concentrata sull’incapacità del mondo libero di vincere la guerra. Oggi, sull’incapacità di vincere la pace. Comunque, le argomentazioni degli scettici suonano troppo familiari. Insistono nel dire che determinate culture e civiltà non sono compatibili con la democrazia e che determinati popoli non la desiderano. Sostengono che gli arabi abbiano bisogno e vogliano governanti dal pugno di ferro, che non abbiano mai avuto la democrazia e mai l’avranno, e che i loro valori «non sono i nostri valori». Ancora una volta viene detto che la democrazia in certe parti del mondo non sia la cosa migliore per l’Occidente. Non si faticherà ad ammettere che gli attuali regimi in Medio Oriente sopprimano la libertà, nella convinzione però che quei regimi sopprimano anche un’alternativa molto peggiore: i radicali e i fondamentalisti che potrebbero vincere le elezioni democratiche. Il messaggio è chiaro: meglio avere a che fare con una dittatura mediorientale che ci è amica piuttosto che con un regime democratico che ci è nemico. Infine, si afferma che per quanto il mondo libero possa essere reso più sicuro da una democratizzazione nella regione, le democrazie possono fare poco per dare una mano. Ci viene detto che la democrazia non si può imporre dall’esterno e che qualsiasi tentativo in questo senso non farà che provocare un ritorno di fiamma, dando ulteriore fiato all’odio. Siccome la riforma democratica può venire soltanto dall’interno, il ruolo prudente dei leader del mondo libero - si sostiene - è di prendere il meglio da una brutta situazione. Anziché cercare di creare avventatamente un nuovo Medio Oriente che è al di fuori della nostra portata e provocherà maggiore ostilità nei confronti dell’Occidente, i leader democratici vengono consigliati di lavorare con i regimi non-democratici «moderati» della regione per promuovere pace e stabilità. C’è una cosa che unisce tutte queste argomentazioni: la negazione che il potere della libertà trasformi il Medio Oriente. Io sono invece convinto che la libertà in qualsiasi luogo renderà il mondo più sicuro in ogni luogo. E sono convinto che le nazioni democratiche, guidate dagli Stati Uniti, abbiamo un ruolo cruciale da svolgere nell’estendere la libertà sul pianeta. Perseguendo politiche chiare e coerenti che legano le relazioni con i regimi non democratici al livello di libertà di cui godono i sudditi di quei regimi, il mondo libero può trasformare qualsiasi società sulla Terra, comprese quelle che dominano il paesaggio attuale del Medio Oriente. Così facendo, la tirannia può diventare, come la schiavitù, un male senza futuro. (traduzione di Monica Levy e Maria Serena Natale )
Natan (Anatholy) Sharansky è nato in Ucraina nel 1948 e si è laureato in fisica a Mosca. Sin da giovane è stato un dissidente impegnato in attività sioniste. Nel 1973 chiese al regime sovietico un visto per recarsi in Israele, subito negatogli per «ragioni di sicurezza». Quattro anni dopo venne arrestato con l’accusa di essere una spia degli Stati Uniti e condannato a 13 anni di prigione. In seguito a una campagna internazionale, le autorità sovietiche lo rilasciarono l’11 febbraio del 1986: quella stessa notte Sharansky fece il suo arrivo in Israele. Eletto presidente del neonato Forum Sionista, è stato sempre in prima linea per la causa degli ebrei sovietici. Convinto che la priorità nazionale di Israele sia favorire l’immigrazione, ha fondato il partito politico Yisrael B’Aliya . Ministro dal 1999, ha pubblicato Fear no evil , la raccolta delle sue memorie, e il recente The case of democracy insieme al giornalista Ron Dermer, dalla cui introduzione è tratto l’articolo qui pubblicato
Natan (Anatholy) Sharansky è nato in Ucraina nel 1948 e si è laureato in fisica a Mosca. Sin da giovane è stato un dissidente impegnato in attività sioniste. Nel 1973 chiese al regime sovietico un visto per recarsi in Israele, subito negatogli per «ragioni di sicurezza». Quattro anni dopo venne arrestato con l’accusa di essere una spia degli Stati Uniti e condannato a 13 anni di prigione. In seguito a una campagna internazionale, le autorità sovietiche lo rilasciarono l’11 febbraio del 1986: quella stessa notte Sharansky fece il suo arrivo in Israele. Eletto presidente del neonato Forum Sionista, è stato sempre in prima linea per la causa degli ebrei sovietici. Convinto che la priorità nazionale di Israele sia favorire l’immigrazione, ha fondato il partito politico Yisrael B’Aliya . Ministro dal 1999, ha pubblicato Fear no evil , la raccolta delle sue memorie, e il recente The case of democracy insieme al giornalista Ron Dermer, dalla cui introduzione è tratto l’articolo qui pubblicato
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