giovedì, gennaio 20, 2005

Intervista al premio nobel Amartya Sen

«Tifavo Kerry, ma George W. è più intelligente»
L’economista Amartya Sen: «Il presidente mi ha convinto con il suo pragmatismo»

- dal Corriere della Sera di oggi 20/1/2005

ROMA - Davvero tutta la violenza del mondo ha una, e una sola, origine, la povertà? E davvero i Paesi molto poveri riescono ad agganciare la modernità solo rinviando l'appuntamento con la democrazia? A queste e a molte altre domande risponde il premio Nobel per l'economia, Amartya Sen, in visita a Roma per il ciclo «Atlante 2006, scenari per il futuro», una serie di incontri curati dal filosofo Sebastiano Maffettone. Risponde anche sui nuovi quattro anni di George W. Bush. «Tifavo Kerry, ha vinto lui. Non è la fine del mondo. Su un paio di temi, Bush ha avuto posizioni politiche molto più intelligenti del suo rivale»... Ma di fronte agli studenti e ai nuovi vertici della Luiss, dal presidente Montezemolo ai vicepresidenti Titti Oliva ed Emmanuele Emanuele, Amartya Sen, docente di economia e filosofia ad Harvard, ha scelto di parlare del nesso che lega povertà e violenza. Da questo argomento prende avvio anche la nostra conversazione. Lo dicono i politici nei loro discorsi, lo pensa la gente comune: se non ci fosse povertà, non ci sarebbe terrorismo. E' davvero così, professor Sen? «Certo, esiste una relazione tra povertà e terrorismo, ma non è così automatica. Un'eccessiva semplificazione non giova alla comprensione del legame tra i due fenomeni. La povertà è cosa terribile in sé, ma se si pensa di doverla combattere soltanto perché da lì viene la violenza, si finisce con l'indebolire, non col rafforzare, la stessa lotta alla povertà. Prendiamo il caso dell'Afghanistan. E' facile dire che è un Paese povero e devastato dalla violenza. Ma è sbagliato analizzare "quella" violenza senza tenere conto del fatto che in Afghanistan ci sono stati i talebani, c'è stata l'occupazione sovietica, senza ricordare il ruolo degli Stati Uniti in quella fase, senza riflettere sulla diffusione del fondamentalismo... Enfatizzare unicamente il nesso tra povertà e violenza sarebbe un errore. Così come è un errore guardare alla storia musulmana secondo un'ottica prevalentemente religiosa, come fosse soltanto storia islamica, mentre di quella storia fanno parte le grandi scoperte scientifiche, la matematica, la letteratura. Insomma, il fondamentalismo andrebbe analizzato in chiave politica, più che religiosa, ricordando che sì, la povertà è uno degli alimenti dell'estremismo, ma non il solo. Anche l'aver subìto un'ingiustizia alimenta il fuoco». Islam e democrazia possono procedere insieme, dunque. «I governi nascono dalle discussioni e nella società islamica c'è una lunga tradizione di discussioni pubbliche. Si discuteva alla corte di Saladino, si discuteva nella Spagna musulmana... Sarebbe un errore sostenere che l'Islam è il trionfo delle libertà, ma certo non possiamo ignorare che esistono delle democrazie alimentate da popolazioni in cui la componente musulmana è forte». Restando sul terreno della democrazia e dell'Islam, è ottimista per il dopo elezioni in Iraq? «Veramente, se penso all'Iraq mi sento piuttosto depresso. Non era quella la via da seguire, non si dovevano escludere le Nazioni Unite sin dall'inizio. Adesso è importante che tutti i Paesi si uniscano per riportare la pace in Iraq, anche se in questo modo il carico della responsabilità di quanto è accaduto verrà ridistribuito in maniera ineguale». Pensare all'Iraq la fa sentire depresso. Che cosa le suggerisce, invece, il pensiero del secondo mandato di George W.Bush? Si attende anche lei una svolta «morbida», in qualche modo anticipata dal discorso che Condoleezza Rice ha pronunciato davanti ai senatori? «La società civile americana è molto attiva e la Casa Bianca dovrà tenere conto del pubblico dibattito. Personalmente, speravo che vincesse Kerry, ma ha vinto Bush e non è la fine del mondo. Cerchiamo di essere pragmatici: ci sono terreni sui quali Bush ha avuto posizioni politiche molto più intelligenti di quelle di Kerry. Sulla delocalizzazione delle imprese, per esempio, oppure sulla competizione con Cina ed India. Su questi temi, le posizioni di Kerry erano espressione di una "economic illitteracy", vero analfabetismo economico. Durante la campagna elettorale, ci sono state forti pressioni su Bush, perché cambiasse idea e seguisse Kerry nell'opporsi all'outsourcing, per esempio. Ma lui ha resistito. Così come ha tenuto fermo il punto sulla legalizzazione dell'immigrazione». Lei le giudica arcaiche, ma le posizioni di chi teme la Cina e la delocalizzazione delle imprese sono diffuse tra politici e imprenditori, in Italia, come negli Stati Uniti. «Confermo: si tratta di un pensiero antiquato. La Cina si muove, compra, vende, sta sul mercato. Non sono certo un fondamentalista del liberalismo, ma penso che per l'Europa, oggi, sia molto più importante difendere nel mondo il concetto di democrazia. Perché è spazzatura, pura spazzatura, sostenere che la Cina è cresciuta tanto tumultuosamente grazie al suo deficit di democrazia. La crescita non è mai favorita da un clima di brutalità e i frutti in democrazia si distribuiscono meglio». D'accordo sul principio, professore. Ma intanto la Cina, politicamente bloccata, in economia vola. «Anche l'India, però, ed è un Paese democratico. Mettiamole a confronto. In India, la crescita economica è inferiore a quella cinese, ma in compenso la longevità dei suoi abitanti si è triplicata negli ultimi anni. In Cina, invece, dopo le riforme degli anni '70 non sono riusciti a mantenere lo stesso ritmo, nè sul piano delle aspettative di vita, nè su quello dell'educazione scolastica». Sta dicendo che i cinesi stanno facendo più soldi senza per questo allungarsi la vita? «Sì. Oggi solo sette anni separano l'aspettativa di vita di un indiano da quella di un cinese: 64 a 71 anni. E in Cina c'è stata anche una vistosa crescita della diseguaglianza sociale. Pure in India? Vero, ma nel mio Paese se n'è discusso, e molto, alle ultime elezioni e su questo il partito che era al potere è stato sconfitto. C'è bisogno di democrazia per riequilibrare i processi. So che può esserci un uso retorico, e strumentale, del termine democrazia, come quando si rimpiazza un governo con un altro e poi si dice che "ha trionfato la democrazia", ma questo non può impedirci di dire le cose come stanno: temere la Cina o, per il verso opposto, magnificare una dittatura perché "favorisce la crescita economica" è, in ogni caso, l'effetto di una paura irrazionale».
Maria Latella