Il calcio schietto dell'Athletic Bilbao : una recensione
Se per la Grecia, l’Italia e la Germania l’Ottocento è stato il secolo della nascita come stati, altre nazioni invece hanno continuato nel Novecento la loro battaglia per l’affermazione del diritto all’autodeterminazione; fra queste vi è senza dubbio quella basca. Nel 1893 ha infatti origine ufficiale il nazionalismo basco, un movimento politico che ancora oggi fa parlare di sé attraverso l’azione di partiti e di gruppi terroristici che si richiamano a quella ideologia. Vera spina nel fianco dell’attuale governo spagnolo guidato dal socialista Zapatero, il nazionalismo in terra basca guida l’azione, con metodi pacifici, del primo partito della regione (PNV) e, con metodi violenti, del movimento terroristico (ETA) nato sul finire degli anni Cinquanta. Ma, a fianco di queste organizzazioni, c’è un’altra espressione del sentimento nazionale che, da più di un secolo, partecipa a pieno titolo alla vita del paese: l’Athletic Club de Bilbao non è una semplice squadra di calcio ma una vera e propria istituzione che riempie di orgoglio il popolo basco.
Dall’ottobre 2006 è nelle librerie un volume che parla proprio della squadra bilbaina, scritto dall’ispanista e giornalista free lance Simone Bertelegni e pubblicato dell’editore aretino Limina, L’ultimo baluardo – il calcio schietto dell’Athletic Bilbao racconta la storia del club dalle origini fino ai giorni nostri, con una breve appendice per capire meglio di cosa si parla quando si dice Euskal Herria. Ma che cos’è, questa Euskal Herria?
Come scrive l’autore nel libro, “in italiano siamo soliti tradurre tale termine con «Paesi Baschi», anche se letteralmente significa «Popolo basco» o «Popolo della lingua basca», espressioni più adeguate perché ciò che accomuna i baschi non è tanto l’appartenenza a un’unica entità politica o statale, ma un denominatore comune culturale. La mitica patria basca, infatti, a livello amministrativo è smembrata, suddivisa innanzitutto in una parte settentrionale appartenente alla Francia (Iparralde) e una meridionale appartenente alla Spagna (Hegoalde), a sua volta suddivisa tra Comunità Autonoma Basca (CAV nell’acronimo spagnolo), Navarra e una piccola porzione della provincia castigliana di Burgos”.
L’Athletic Bilbao è strettamente legato alla sua terra, dopo pochi anni dalla sua nascita (avvenuta nel 1898) la squadra ha deciso di ricorrere ad una politica autarchica per quanto riguarda la scelta dei propri giocatori: l’intera rosa, ancora oggi, deve essere formata da calciatori baschi, nessuno straniero e soprattutto nessuno spagnolo. Unico caso di compagine calcistica che, dopo la sentenza Bosman, ricorre in larga parte al proprio vivaio, l’Athletic è la squadra dei baschi, il simbolo di una nazione che ogni domenica si stringe intorno ai suoi atleti.
Nel calcio moderno, dove squadre come l’Inter o l’Arsenal sono capaci di schierare anche 11 giocatori stranieri ogni partita, dove – come si va ripetendo da anni alla stregua di un “non esistono più le mezze stagioni” – sono scomparse le cosiddette “bandiere”, l’Athletic Bilbao rappresenta una chiara eccezione. E questa scelta autarchica non ha di certo penalizzato la squadra, essendo una delle società più blasonate di Spagna con 8 scudetti e 24 coppe del Re al suo attivo. Ovviamente i problemi non sono pochi: innanzitutto occorre investire molte risorse nel settore giovanile e attingere da un bacino di giovani calciatori molto ridotto, poi non potersi opporre alle richieste dei grandi club europei che, con elevate offerte economiche, saccheggiano i talenti della squadra. Ma esistono pure numerosi vantaggi: l’attaccamento alla maglia, alla storia e alla tradizione del club, la simbiosi che si viene a creare fra squadra e identità nazionale portano i singoli giocatori a rendere al massimo delle loro possibilità, sospinti da un tifo che è sempre più raro trovare sui campi da calcio.
La storia del club ha, così, corso per più di un secolo parallelamente alle vicende politiche del paese, rappresentando un importante tassello dell’identità dei Paesi Baschi. Attraverso il calcio, i baschi hanno potuto prendersi quelle soddisfazioni che il regime franchista gli negava. Proibita la lingua (euskera) e la bandiera locale (ikurriña), imposto addirittura il cambio del nome (dall’anglosassone “Athletic” – a rappresentare l’influenza della terra d’Albione nella nascita del club – ad uno spagnolissimo “Atletico”) ogni vittoria che i biancorossi riuscivano a conseguire sul campo del Real Madrid (che sostanzialmente era, allora, la squadra del regime) costituiva uno schiaffo a Franco e alla sua politica repressiva. Ancora oggi, le sfide fra i bilbaini e i madrileni, rappresentano qualcosa in più di una semplice partita di calcio: da una parte gioca la squadra della capitale (cioè il simbolo del potere centrale), dall’altra l’orgoglio di un popolo che si sente nazione.
Per Roberto Beccantini, giornalista sportivo della «Stampa», “nell’era della Champions League e del G14, la lobby esclusiva che raggruppa i club milionari, a Bilbao non hanno nessuna intenzione di cambiare l’ora. Il futuro non è passato: è «il» passato. Essere prigionieri per scelta – dice sempre Beccantini – resta un simbolo di libertà”.
L’identificazione politica, geografica e socio-culturale tra Athletic ed Eushal Herria, e la scelta di puntare su valori forti rappresentano dunque un modello meritevole di attenti studi, se non di pura ammirazione. E’ possibile difendere le proprie radici anche prendendo a calci un pallone.
Dall’ottobre 2006 è nelle librerie un volume che parla proprio della squadra bilbaina, scritto dall’ispanista e giornalista free lance Simone Bertelegni e pubblicato dell’editore aretino Limina, L’ultimo baluardo – il calcio schietto dell’Athletic Bilbao racconta la storia del club dalle origini fino ai giorni nostri, con una breve appendice per capire meglio di cosa si parla quando si dice Euskal Herria. Ma che cos’è, questa Euskal Herria?
Come scrive l’autore nel libro, “in italiano siamo soliti tradurre tale termine con «Paesi Baschi», anche se letteralmente significa «Popolo basco» o «Popolo della lingua basca», espressioni più adeguate perché ciò che accomuna i baschi non è tanto l’appartenenza a un’unica entità politica o statale, ma un denominatore comune culturale. La mitica patria basca, infatti, a livello amministrativo è smembrata, suddivisa innanzitutto in una parte settentrionale appartenente alla Francia (Iparralde) e una meridionale appartenente alla Spagna (Hegoalde), a sua volta suddivisa tra Comunità Autonoma Basca (CAV nell’acronimo spagnolo), Navarra e una piccola porzione della provincia castigliana di Burgos”.
L’Athletic Bilbao è strettamente legato alla sua terra, dopo pochi anni dalla sua nascita (avvenuta nel 1898) la squadra ha deciso di ricorrere ad una politica autarchica per quanto riguarda la scelta dei propri giocatori: l’intera rosa, ancora oggi, deve essere formata da calciatori baschi, nessuno straniero e soprattutto nessuno spagnolo. Unico caso di compagine calcistica che, dopo la sentenza Bosman, ricorre in larga parte al proprio vivaio, l’Athletic è la squadra dei baschi, il simbolo di una nazione che ogni domenica si stringe intorno ai suoi atleti.
Nel calcio moderno, dove squadre come l’Inter o l’Arsenal sono capaci di schierare anche 11 giocatori stranieri ogni partita, dove – come si va ripetendo da anni alla stregua di un “non esistono più le mezze stagioni” – sono scomparse le cosiddette “bandiere”, l’Athletic Bilbao rappresenta una chiara eccezione. E questa scelta autarchica non ha di certo penalizzato la squadra, essendo una delle società più blasonate di Spagna con 8 scudetti e 24 coppe del Re al suo attivo. Ovviamente i problemi non sono pochi: innanzitutto occorre investire molte risorse nel settore giovanile e attingere da un bacino di giovani calciatori molto ridotto, poi non potersi opporre alle richieste dei grandi club europei che, con elevate offerte economiche, saccheggiano i talenti della squadra. Ma esistono pure numerosi vantaggi: l’attaccamento alla maglia, alla storia e alla tradizione del club, la simbiosi che si viene a creare fra squadra e identità nazionale portano i singoli giocatori a rendere al massimo delle loro possibilità, sospinti da un tifo che è sempre più raro trovare sui campi da calcio.
La storia del club ha, così, corso per più di un secolo parallelamente alle vicende politiche del paese, rappresentando un importante tassello dell’identità dei Paesi Baschi. Attraverso il calcio, i baschi hanno potuto prendersi quelle soddisfazioni che il regime franchista gli negava. Proibita la lingua (euskera) e la bandiera locale (ikurriña), imposto addirittura il cambio del nome (dall’anglosassone “Athletic” – a rappresentare l’influenza della terra d’Albione nella nascita del club – ad uno spagnolissimo “Atletico”) ogni vittoria che i biancorossi riuscivano a conseguire sul campo del Real Madrid (che sostanzialmente era, allora, la squadra del regime) costituiva uno schiaffo a Franco e alla sua politica repressiva. Ancora oggi, le sfide fra i bilbaini e i madrileni, rappresentano qualcosa in più di una semplice partita di calcio: da una parte gioca la squadra della capitale (cioè il simbolo del potere centrale), dall’altra l’orgoglio di un popolo che si sente nazione.
Per Roberto Beccantini, giornalista sportivo della «Stampa», “nell’era della Champions League e del G14, la lobby esclusiva che raggruppa i club milionari, a Bilbao non hanno nessuna intenzione di cambiare l’ora. Il futuro non è passato: è «il» passato. Essere prigionieri per scelta – dice sempre Beccantini – resta un simbolo di libertà”.
L’identificazione politica, geografica e socio-culturale tra Athletic ed Eushal Herria, e la scelta di puntare su valori forti rappresentano dunque un modello meritevole di attenti studi, se non di pura ammirazione. E’ possibile difendere le proprie radici anche prendendo a calci un pallone.