I moralizzatori
Il mercato deve essere moralizzato. Ultimamente sostengo battaglie da novello Don Chisciotte, l'unica differenza sta nel domicilio: per l' "eroe" di Cervantes era La Mancia, per me l'Emilia-Romagna. Mi capita di dovere sostenere discussioni sulla quantità di Stato che deve guidare la vita dei cittadini e sui meccanismi "perversi" (secondo loro, ovvero i miei interlocutori) del libero mercato. Come premessa va ricordato che questi meccanismi "perversi" hanno portato l'Occidente ad avere un livello di benessere ineguagliato. Sfido qualunque accusatore del capitalismo a sostenere che in Africa o in Asia si viva meglio che nell'Europa centro-occidentale o negli Stati Uniti. Perchè i fenomeni migratori vanno solamente in una direzione? Forse perchè le persone cercano di spostarsi da zone povere verso zone ricche? Forse perchè le persone cercano migliori condizioni di vita? E il capitalismo ha creato benessere e prosperità. Detto questo si può passare oltre. Il libero mercato non persegue fini morali. Il libero mercato si basa sulla ricerca del profitto e del guadagno, secondariamente può anche essere guidato, in taluni casi, da principi che potremmo definire morali. Il codice etico che tante aziende si stanno dando va proprio in questa direzione (e sarà come sempre il consumatore o il beneficiario del servizio a scegliere come discriminante per il suo comportamento il prezzo o l' "eticità" che sta dietro al prodotto, magari pagandolo anche un po' di più). Ma saremmo ipocriti se non dicessimo che l'azienda opera per creare profitto (ovviamente rispettando le regole, una per tutte il diritto di proprietà). Storicamente la maggior parte dei correttivi adottati per rendere più "giusto" il mercato si sono rivelati inefficaci, nel senso che hanno voluto distorcere un processo che si autoregola. Tentativi di rendere il capitalismo moralmente accettabile hanno creato la negazione del libero mercato: ad esempio il collettivismo e il dirigismo statale nelle società comuniste. Il principio che mosse Marx nella elaborazione della sua dottrina fu proprio un principio etico: lo sfruttamento inaccettabile del lavoro del salariato per creare il profitto di cui è beneficiario il padrone. E anche oggi chi accusa il proprio datore di lavoro accampa un diritto morale a non essere sottopagato (ma non sarà che ognuno persegue il proprio interesse e dunque ognuno prova a tirare acqua al suo mulino?), no!, è una questione morale! Ognuno dovrebbe essere pagato per il proprio lavoro, certo. Però è il mercato a stabilire la sua retribuzione. Un lavoro altamente qualificato, per il quale pochi hanno le conoscenze per svolgerlo, sarà retribuito maggiormento rispetto ad un lavoro che richiede poca professionalità. Si tira spesso in ballo i praticanti negli studi dei liberi professionisti (architetti, avvocati, ecc) il più delle volte non retribuiti per le prestazioni offerte. In questo caso però occore demarcare bene quella linea che separa il vantaggio ottenuto dal praticante nell'apprendere una professione, dal vantaggio ottenuto dal datore di lavoro per l'aiuto offerto dal praticante. E se, dopo un periodo di prova, il praticante si dimostra particolarmente dotato è nell'interesse del libero professionista tenerselo ben stretto accordandogli uno stipendio adeguato. In questo caso è il merito ad essere premiato. Accampare questioni morali diventa rischioso perchè esse stesse sottoposte alla sensibilità del singolo individuo: per te è immorale che un praticante non venga pagato mentre per me lo è; per te è immorale che lo Stato non ridistribuisca le ricchezze a favore dei più poveri mentre per me è immorale che lo Stato scelga al posto mio cosa fare dei miei soldi; per me può essere immorale il comportamento di chi accumula notevoli quantità di denaro attraverso cospicue rendite (ad esempio gli immobiliaristi) senza re-investirle in attività produttive che darebbero nuovi posti di lavoro (e quindi nuove prospettive di guagno a chi, magari, è senza lavoro) mentre per te non lo è. In secondo luogo, le cosiddette questioni morali, rischiano di alterare quell'ordine spontaneo creato dal libero mercato, a tutto svantaggio dei cittadini.
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