Freud, la Biennale e il ghetto ebraico
Dell'ultima mia visita a Venezia ricordavo gli schizzi dell'acqua che bagnava il mio viso. Niente S. Marco, niente Piccioni, ricordavo solamente il motoscafo. Ora sono passati 20 anni e finalmente ho rimesso piede nella laguna (e un po' me ne vergogno, perchè ho dovuto far passare così tanto tempo?). Due giorni trascorsi a macinare chilometri con l'unico mezzo di locomozione su terra: le proprie gambe. Tante attrattive culturali che, in un solo weekend, non potevo soddisfare completamente. La scelta è ricaduta sulla mostra di Lucien Freud al Museo Correr e sulla Biennale Arte (forse la "a" minuscola è più indicata). Del nipote di Sigmund che dire, forse ci si può associare al giudizio di tanti critici d'arte: "il miglior pittore contemporaneo vivente". Freud ha tutto ciò che manca a tanti nuovi artisti: una tecnica eccezionale e una capacità enorme di trasmettere forti sensazioni. Alla Biennale invece la pittura rimane pressochè bandita (per fortuna una sala è dedicata a Bacon). Nonostante ciò, della visita al Padiglione Italia, salverei molte cose. Gli spazi espositivi curati da Maria de Corral sono interessanti, poca pittura, tanti video e tante installazioni. A passeggiare tra quelle sale si ha la percezione che il colore e il pennello non abbiano più niente da dire, che siano stati spremuti fino in fondo. Molte nuove opportunità offre il territorio vergine dell'immagine animata. Ma non sempre il filmato e l'installazione riescono nell'intento di comunicare con il pubblico. Si può, in alcuni casi, subire solamente la fascinazione dell'immagine e non avanzare di un centimetro da quello stadio. Non giungono emozioni forti e non veniamo raggiunti o creiamo idee e concetti. Oggi il piacere estatico della contemplazione è stato sostituito da una tendenza a concettualizzare l'opera d'arte. Ma se fra opera d'arte e fruitore si frappone (allitterazione involontaria) una barriera, è impossibile che vi sia comunicazione. Ed allora si rimane nella autoreferenzialità, dove l'artista parla a sè stesso e non ad un pubblico. Cosa che accade durante la visita all'arsenale. L'espozione curata dall'altra spagnola è una vera e propria arlecchinata. Un parco divertimenti dominato dal non senso. Un territorio ostile pieno di suoni, luci e colori. Lo spazio indistinto, "aperto" che accoglie le opere crea ulteriore smarrimento. Un caos incomprensibile dove il confine fra arte e non arte evapora. L'artista è muto e il pubblico è sordo (e cieco). Si esce dall'arsenale dopo essere stati ospitati su una navicella spaziale e si rimane con la sensazione di essere passati non per una mostra d'arte ma per Gardaland. Di Venezia ricorderò anche la visita al più antico ghetto ebraico nato in Italia. Confinati in un territorio ristrettissimo gli ebrei hanno costruito palazzi alti fino a nove piani (gli unici così alti a Venezia). D'altronde sono il popolo che è riuscito ad ottenere frutti da un suolo così poco fertile come il deserto.
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