lunedì, giugno 06, 2005

A Rutelli ora mancano solo le stimmate

Ormai è l'apoteosi. Anzi, di più, è la trasfigurazione: Francesco Rutelli scontati tutti i suoi peccati pannelliani, si è ormai trasformato nel più devoto e pio dei democristiani. Sui quattro referendum, come ha chiesto il Cardinal Camillo Ruini dall'alto del suo magistero, anche l'ex sindaco di Roma ha infatti deciso d'astenersi, affinchè le ragioni profondamente etiche del 'no' trionfino sulle consumistiche, disumane, egoistiche, caotiche, tre volte orribili ragioni della scienza. E così sia. A questo punto, consumato fino in fondo il ribaltone sulla Via di Damasco, non c'è cristiano ne tanto meno democristiano che gli possa ancora bagnare il naso rinfacciandogli le sue origini. Chi sono Marini, Follini e persino Casini al suo confronto? Tre "democristiani" tra virgolette. Come anche Prodi, del resto, che notoriamente è un democristiano “per modo di dire”, come gli è stato ricordato negli ultimi giorni. Soltanto Rutelli è degno di brandire lo scudo crociato e di guidare in battaglia i cattolici italiani. Come Veltroni, che una volta dichiarò di non essere mai stato comunista, anche Rutelli può finalmente rivelare di non essere mai stato radicale. Dev’essere qualcosa nell'aria condizionata dell'ufficio del primo cittadino della Città Eterna: uno siede su quella poltrina ed ecco che tutte le sue colpe sono cancellate con un oplà angelico. Rutelli, d'altra parte, è uno che ha molto sofferto per la Vera Religione. Anche lui, infatti, come i principali martiri della cristianità, che venivano arsi vivi e spietatamente torturati dai perfidi pagani, ha subito il martirio. Un tempo, sotto Nerone e gli altri imperatori schizofrenici, i cristiani primitivi venivano mangiati dai leoni nell'arena e lui, il povero Rutelli, è stato costretto per anni a ”mangiare pane e cicoria" nell'anticamera dei potenti. Dopo aver mangiato pane e cicoria sotto Craxi, sotto Fassino e D’Alema, persino sotto Prodi, è tempo che Rutelli mostri le stimmate e venga assunto in cielo.
Diego Gabutti - Il Tempo, 6/6/2005