Ora è tutto chiaro... Viva i rapitori, abbasso gli americani!!!
Lei ha detto di essere stata trattata bene dai rapitori.
«Confermo. Perché?»
Nel suo primo video sembrava disperata.
«Lo ero. Non ero ancora riuscita a versare una lacrima fino a quel momento, e io sono una che piange spesso. Quando ho parlato di Pier, mi sono messa a piangere».
I rapitori cosa le avevano detto?
«Mi avevano chiesto di drammatizzare. Era un momento difficile, perché ero in una fase di grande incavolatura. Ero rabbiosa, litigavo. Non capivo i loro motivi».
Quali erano le sue sensazioni nei loro confronti?
«Non mi sono mai sentita una loro nemica. Non era facile, la mia era una posizione di sottomissione. Ma ho cercato di capirli, attraverso le frasi che scambiavamo».
E cosa ha capito?
«Dicevano di lottare per la liberazione dell’Iraq, sostenevano di essere in guerra e quindi costretti a usare ogni mezzo. Si definivano resistenza irachena. Ma non sono sgozzatori come Al Zarkawi o quelli delle autobombe».
Esiste questa differenza?
«Certo. Mi facevano il segno del taglio alla gola e dicevano: "Noi non siamo quelli"».
Non che il sequestro di persona sia un’attività encomiabile.
«Io ho sempre appoggiato la resistenza civile irachena. Ma in guerra, posso capire che si arrivi a questi eccessi».
Si riferisce ai sequestri?
«Certo. Per chiarire: Al Zarkawi non è resistenza. E’ terrorismo. Le autobombe sono terrorismo. C’è una resistenza armata che usa metodi inaccettabili».
Per lei in Iraq è in corso una guerra?
«Sì. Lo pensano anche i miei sequestratori. "Non tornare mai più", mi dicevano. Perché in guerra non ci sono regole».
Lei vive questo sequestro come una sua sconfitta.
«Ho perso, ed è il motivo per cui non tornerò più in Iraq. Non ora, almeno. Io volevo raccontare gli effetti devastanti di questa occupazione. Ma per loro in questo momento non c’è distinzione tra militari o giornalisti, tra italiani o francesi».
Secondo Pier, il suo compagno, lei aveva informazioni che avrebbero potuto dare fastidio agli americani.
«Credo sia stato frainteso. Non ho nessuna informazione riservata, magari le avessi. Però mi imbestialisco se sento parlare di "tragico incidente"»
Ha parlato di «pioggia di fuoco». Ma Calipari è stato ucciso da un solo colpo.
«Io ricordo che sul sedile accanto a me c’era una montagna di proiettili. Non sono in grado di quantificarli. Ma posso dire che in un attimo tutti i vetri della macchina sono andati in frantumi».
Qual è la sua opinione?
«Non ho la verità in tasca. Penso, ma è solo una ipotesi, che l’esito felice della trattativa possa aver dato fastidio. Gli americani sono contro questo tipo di operazione. Per loro la guerra è guerra, la vita umana conta poco».
C’è chi la accusa già di essere antiamericana.
«Non è un reato. Il dibattito su questi temi viene fatto da gente che a Bagdad non ha messo piede. Io sfido chiunque ad andare a vedere quel che succede in Iraq e a non essere poi antiamericano».
Questa vicenda l’ha cambiata?
«Non ha cambiato le mie convinzioni personali sulla guerra e su quello che sta succedendo in Iraq».
Non teme di passare per «ingrata», come accadde alle due Simone?
«Mi ferirebbe, ma non escludo che possa accadere. Sarebbe un po’ ipocrita. Ho ringraziato di cuore chi dovevo ringraziare. Certo, ho le mie opinioni. Ma anche prima della mia liberazione si sapeva come la pensavo».
Marco Imarisio - Corriere.it (7/3/2005)
«Confermo. Perché?»
Nel suo primo video sembrava disperata.
«Lo ero. Non ero ancora riuscita a versare una lacrima fino a quel momento, e io sono una che piange spesso. Quando ho parlato di Pier, mi sono messa a piangere».
I rapitori cosa le avevano detto?
«Mi avevano chiesto di drammatizzare. Era un momento difficile, perché ero in una fase di grande incavolatura. Ero rabbiosa, litigavo. Non capivo i loro motivi».
Quali erano le sue sensazioni nei loro confronti?
«Non mi sono mai sentita una loro nemica. Non era facile, la mia era una posizione di sottomissione. Ma ho cercato di capirli, attraverso le frasi che scambiavamo».
E cosa ha capito?
«Dicevano di lottare per la liberazione dell’Iraq, sostenevano di essere in guerra e quindi costretti a usare ogni mezzo. Si definivano resistenza irachena. Ma non sono sgozzatori come Al Zarkawi o quelli delle autobombe».
Esiste questa differenza?
«Certo. Mi facevano il segno del taglio alla gola e dicevano: "Noi non siamo quelli"».
Non che il sequestro di persona sia un’attività encomiabile.
«Io ho sempre appoggiato la resistenza civile irachena. Ma in guerra, posso capire che si arrivi a questi eccessi».
Si riferisce ai sequestri?
«Certo. Per chiarire: Al Zarkawi non è resistenza. E’ terrorismo. Le autobombe sono terrorismo. C’è una resistenza armata che usa metodi inaccettabili».
Per lei in Iraq è in corso una guerra?
«Sì. Lo pensano anche i miei sequestratori. "Non tornare mai più", mi dicevano. Perché in guerra non ci sono regole».
Lei vive questo sequestro come una sua sconfitta.
«Ho perso, ed è il motivo per cui non tornerò più in Iraq. Non ora, almeno. Io volevo raccontare gli effetti devastanti di questa occupazione. Ma per loro in questo momento non c’è distinzione tra militari o giornalisti, tra italiani o francesi».
Secondo Pier, il suo compagno, lei aveva informazioni che avrebbero potuto dare fastidio agli americani.
«Credo sia stato frainteso. Non ho nessuna informazione riservata, magari le avessi. Però mi imbestialisco se sento parlare di "tragico incidente"»
Ha parlato di «pioggia di fuoco». Ma Calipari è stato ucciso da un solo colpo.
«Io ricordo che sul sedile accanto a me c’era una montagna di proiettili. Non sono in grado di quantificarli. Ma posso dire che in un attimo tutti i vetri della macchina sono andati in frantumi».
Qual è la sua opinione?
«Non ho la verità in tasca. Penso, ma è solo una ipotesi, che l’esito felice della trattativa possa aver dato fastidio. Gli americani sono contro questo tipo di operazione. Per loro la guerra è guerra, la vita umana conta poco».
C’è chi la accusa già di essere antiamericana.
«Non è un reato. Il dibattito su questi temi viene fatto da gente che a Bagdad non ha messo piede. Io sfido chiunque ad andare a vedere quel che succede in Iraq e a non essere poi antiamericano».
Questa vicenda l’ha cambiata?
«Non ha cambiato le mie convinzioni personali sulla guerra e su quello che sta succedendo in Iraq».
Non teme di passare per «ingrata», come accadde alle due Simone?
«Mi ferirebbe, ma non escludo che possa accadere. Sarebbe un po’ ipocrita. Ho ringraziato di cuore chi dovevo ringraziare. Certo, ho le mie opinioni. Ma anche prima della mia liberazione si sapeva come la pensavo».
Marco Imarisio - Corriere.it (7/3/2005)
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