"Intellettuali e Sartre" di Angelo Panebianco
- Corriere della Sera del 7/3/2005
Perché in Francia, ma anche in Italia, tanti intellettuali di sinistra continuano anche oggi, nonostante quelle che Norberto Bobbio definiva le «dure repliche della storia», a scegliere Jean-Paul Sartre contro Raymond Aron, continuando, come i giovani del Sessantotto francese, a preferire «avere torto» con Sartre piuttosto che correre il rischio di «avere ragione» con Aron? [continua a leggere cliccando su "leggi tutto!"]
La domanda, posta sul Corriere della Sera di ieri da Pierluigi Battista, non si presta a risposte semplici. Sono in gioco probabilmente molti fattori. Certamente pesa il fatto che Sartre e Aron incarnano due archetipi di «intellettuale politico» che sono in reciproca, radicale opposizione e il primo, quello identificato in Sartre, è sempre apparso più attraente e forse anche più facile da imitare. L’ engagement , l’estro e l’irruenza del maître-à-penser per antonomasia, Sartre, mantengono un alone romantico di cui è inevitabilmente sprovvista la prosa pacata di Aron, lo studioso liberale che, dalla sua cattedra universitaria e dalla tribuna del quotidiano Le F igaro , vivisezionava, cercando di renderle comprensibili, la politica e la storia. Il venditore di miti è inevitabilmente preferito al maestro delle analisi sottili. Oltre a tutto, per diffondere miti politici servono estro e capacità dialettiche, per analizzare la storia occorrono studio e applicazione (e dunque fatica).
Aron, d’altra parte, non fece nulla in vita per piacere all’intellighenzia di sinistra. Ad esempio, in un libro celebre, del 1955, L’oppio degli intellettuali (Ideazione, 1998), un testo a cavallo fra la storia delle idee, la sociologia della conoscenza e il ritratto della intellighenzia parigina dei primi anni Cinquanta, analizzò con acutezza la natura dei principali miti politici (il mito della «sinistra», il mito della «rivoluzione», il mito del «proletariato») di cui quell’intellighenzia si era invaghita e le ragioni che ne spiegavano il successo. Come avrebbero mai potuto quegli intellettuali (ma anche i loro figli e nipoti, francesi e italiani di oggi) perdonare un simile affronto?
Le cose stanno proprio come dice Battista. Sartre, che le sbagliò tutte (e il cui engagement altro non era che una forma di fiancheggiamento del comunismo sovietico), continua a suscitare la deferenza di tanti, mentre il pensiero di Aron, il suo avversario intellettuale, interessa a pochissimi.
È probabilmente il «continuismo», ossia l’assenza di una seria riflessione critica sulle proprie idee di un tempo, la causa principale del fatto che un’ampia parte dell’intellighenzia di sinistra, in Francia come in Italia, preferisca glissare sui mille torti di Sartre. Se non lo facesse, come potrebbe glissare sui «propri» torti?
Spiegare le ragioni della perdurante popolarità di Sartre non è semplice, perché in realtà significa spiegare, o tentare di spiegare, le ragioni per cui dopo l’89, crollato il comunismo sovietico, tutti quelli «che avevano avuto torto» con Sartre hanno per lo più fatto finta di niente, non si sono dati pena, pur essendo di solito molto ciarlieri, di sottoporre a riesame critico i propri giudizi e pregiudizi di allora. Se e quando si sono sentite riflessioni serie e autocritiche, nel quindicennio che ci separa dai fatti dell’89, queste sono venute soprattutto da uomini politici, da politici di professione, che avevano vissuto dall’interno, con rigore, la tragica esperienza del comunismo. Non è facile invece indicare, e comunque si contano sulle punte delle dita, gli intellettuali di sinistra che abbiano fatto pubblici conti con il proprio passato di fiancheggiatori di quel movimento politico. I più (compresi i tanti che firmavano appelli ispirati, tramite il Pci o il Pcf, dalla politica sovietica) hanno preferito soprassedere, fingere di non ricordare.
Come è stato possibile? Una spiegazione ce la offre un altro Raymond, anche lui francese, anche lui sociologo (come Aron): Raymond Boudon. In un recente libretto, pubblicato in Italia da Rubbettino ( Perché gli intellettuali non amano il liberalismo , pp. 136, 14), Boudon cerca di spiegare perché la fine dell’ideologia comunista e la scomparsa dell’Unione Sovietica non si siano portate dietro il superamento della «mentalità» da cui a suo tempo era nata l’attrazione per il comunismo. Per Boudon il problema è dato da una refrattarietà di fondo di molti intellettuali occidentali, soprattutto europeo-continentali, al liberalismo. Fare i conti con il proprio passato avrebbe significato dover riconoscere la superiorità, politica e morale insieme, delle idee liberali (in odio alle quali, ricordiamo, si erano modellati tutti i miti portanti della sinistra del XX Secolo).
Posto che, come osserva Boudon, la categoria degli intellettuali è ampia e variegata e non in tutte le sue sottocategorie si ritrova uguale ostilità per il liberalismo (è in genere maggiore, ad esempio, fra i sociologi piuttosto che fra gli economisti, fra i letterati piuttosto che fra i giuristi), resta che una fortissima quota di intellettuali continua, nonostante l’89, ad aderire a idee illiberali.
Tra le molte ragioni, ce ne sono certamente diverse legate al ruolo degli intellettuali in quanto tali. Molti di loro, ad esempio, interpretano il proprio compito come quello di «critici dell’esistente», della società in cui vivono, e poiché solo le società liberali danno agli intellettuali possibilità di parola, ecco che criticare la società liberale diventa parte integrante del mestiere. E poi c’è il fatto, decisivo, che il liberalismo dà, su troppi problemi, risposte che risultano insoddisfacenti per le ambizioni del, vero o presunto, o aspirante, maître-à-penser . Per il liberalismo, infatti, le persone non sono guidate nelle loro azioni dalla «falsa coscienza», dalla manipolazione di persuasori occulti o di invisibili strutture (capitalistiche o meno), impersonali e sovraindividuali. Le persone, per il liberalismo, sono individui dotati, fino a prova contraria, di autonomia e di razionalità. Ma accettare questa premessa disarmerebbe l’intellettuale che, interpretando il proprio ruolo come un ruolo di denuncia e «disvelamento», di messa a nudo di false coscienze e manipolazioni occulte ai danni dei più, può così rivendicare solo per se stesso quell’autonomia di pensiero e quella razionalità che nega a tutti gli altri.
Non ci si faccia ingannare dal fatto che oggi non si trova quasi più nessuno che non si definisca «liberale», salvo subito dopo contraddire tale affermazione con questa o quella presa di posizione di sapore illiberale sui diversi problemi pubblici, nazionali e internazionali. Le idee liberali, come dice Boudon, restano appannaggio di pochi. Per le stesse ragioni per cui la figura di Sartre continua a esercitare un grande fascino e quella di Aron no.
Non è difficile attualizzare questo discorso. L’ostilità per gli Stati Uniti che, in certi ambienti intellettuali, è sopravvissuta intatta alla fine della guerra fredda e al crollo del comunismo, si spiega per il fatto che la società americana è percepita, oggi come ai tempi della guerra fredda, come il principale santuario del liberalismo (se a causa di una qualche catastrofe scomparissero gli Stati Uniti, con loro probabilmente scomparirebbe, anche in Europa, l’idea stessa di società liberale), il che spiega un’ostilità che in quegli ambienti viene da lontano e che attualmente è solo malamente mascherata, nascosta dietro la comoda finzione di un rifiuto che si pretende indirizzato contro George W. Bush anziché contro l’America. Così come non è difficile vedere la mentalità illiberale che si nasconde dietro alle tristi affabulazioni (in puro stile sartriano) sulla «resistenza» irachena. Al fondo, c’è un atteggiamento che non è cambiato. Proprio di intellettuali, come scriveva Raymond Aron, «implacabili verso le debolezze delle democrazie ma indulgenti nei confronti dei più grandi crimini, purché perpetrati in nome delle buone dottrine».
Perché in Francia, ma anche in Italia, tanti intellettuali di sinistra continuano anche oggi, nonostante quelle che Norberto Bobbio definiva le «dure repliche della storia», a scegliere Jean-Paul Sartre contro Raymond Aron, continuando, come i giovani del Sessantotto francese, a preferire «avere torto» con Sartre piuttosto che correre il rischio di «avere ragione» con Aron? [continua a leggere cliccando su "leggi tutto!"]
La domanda, posta sul Corriere della Sera di ieri da Pierluigi Battista, non si presta a risposte semplici. Sono in gioco probabilmente molti fattori. Certamente pesa il fatto che Sartre e Aron incarnano due archetipi di «intellettuale politico» che sono in reciproca, radicale opposizione e il primo, quello identificato in Sartre, è sempre apparso più attraente e forse anche più facile da imitare. L’ engagement , l’estro e l’irruenza del maître-à-penser per antonomasia, Sartre, mantengono un alone romantico di cui è inevitabilmente sprovvista la prosa pacata di Aron, lo studioso liberale che, dalla sua cattedra universitaria e dalla tribuna del quotidiano Le F igaro , vivisezionava, cercando di renderle comprensibili, la politica e la storia. Il venditore di miti è inevitabilmente preferito al maestro delle analisi sottili. Oltre a tutto, per diffondere miti politici servono estro e capacità dialettiche, per analizzare la storia occorrono studio e applicazione (e dunque fatica).
Aron, d’altra parte, non fece nulla in vita per piacere all’intellighenzia di sinistra. Ad esempio, in un libro celebre, del 1955, L’oppio degli intellettuali (Ideazione, 1998), un testo a cavallo fra la storia delle idee, la sociologia della conoscenza e il ritratto della intellighenzia parigina dei primi anni Cinquanta, analizzò con acutezza la natura dei principali miti politici (il mito della «sinistra», il mito della «rivoluzione», il mito del «proletariato») di cui quell’intellighenzia si era invaghita e le ragioni che ne spiegavano il successo. Come avrebbero mai potuto quegli intellettuali (ma anche i loro figli e nipoti, francesi e italiani di oggi) perdonare un simile affronto?
Le cose stanno proprio come dice Battista. Sartre, che le sbagliò tutte (e il cui engagement altro non era che una forma di fiancheggiamento del comunismo sovietico), continua a suscitare la deferenza di tanti, mentre il pensiero di Aron, il suo avversario intellettuale, interessa a pochissimi.
È probabilmente il «continuismo», ossia l’assenza di una seria riflessione critica sulle proprie idee di un tempo, la causa principale del fatto che un’ampia parte dell’intellighenzia di sinistra, in Francia come in Italia, preferisca glissare sui mille torti di Sartre. Se non lo facesse, come potrebbe glissare sui «propri» torti?
Spiegare le ragioni della perdurante popolarità di Sartre non è semplice, perché in realtà significa spiegare, o tentare di spiegare, le ragioni per cui dopo l’89, crollato il comunismo sovietico, tutti quelli «che avevano avuto torto» con Sartre hanno per lo più fatto finta di niente, non si sono dati pena, pur essendo di solito molto ciarlieri, di sottoporre a riesame critico i propri giudizi e pregiudizi di allora. Se e quando si sono sentite riflessioni serie e autocritiche, nel quindicennio che ci separa dai fatti dell’89, queste sono venute soprattutto da uomini politici, da politici di professione, che avevano vissuto dall’interno, con rigore, la tragica esperienza del comunismo. Non è facile invece indicare, e comunque si contano sulle punte delle dita, gli intellettuali di sinistra che abbiano fatto pubblici conti con il proprio passato di fiancheggiatori di quel movimento politico. I più (compresi i tanti che firmavano appelli ispirati, tramite il Pci o il Pcf, dalla politica sovietica) hanno preferito soprassedere, fingere di non ricordare.
Come è stato possibile? Una spiegazione ce la offre un altro Raymond, anche lui francese, anche lui sociologo (come Aron): Raymond Boudon. In un recente libretto, pubblicato in Italia da Rubbettino ( Perché gli intellettuali non amano il liberalismo , pp. 136, 14), Boudon cerca di spiegare perché la fine dell’ideologia comunista e la scomparsa dell’Unione Sovietica non si siano portate dietro il superamento della «mentalità» da cui a suo tempo era nata l’attrazione per il comunismo. Per Boudon il problema è dato da una refrattarietà di fondo di molti intellettuali occidentali, soprattutto europeo-continentali, al liberalismo. Fare i conti con il proprio passato avrebbe significato dover riconoscere la superiorità, politica e morale insieme, delle idee liberali (in odio alle quali, ricordiamo, si erano modellati tutti i miti portanti della sinistra del XX Secolo).
Posto che, come osserva Boudon, la categoria degli intellettuali è ampia e variegata e non in tutte le sue sottocategorie si ritrova uguale ostilità per il liberalismo (è in genere maggiore, ad esempio, fra i sociologi piuttosto che fra gli economisti, fra i letterati piuttosto che fra i giuristi), resta che una fortissima quota di intellettuali continua, nonostante l’89, ad aderire a idee illiberali.
Tra le molte ragioni, ce ne sono certamente diverse legate al ruolo degli intellettuali in quanto tali. Molti di loro, ad esempio, interpretano il proprio compito come quello di «critici dell’esistente», della società in cui vivono, e poiché solo le società liberali danno agli intellettuali possibilità di parola, ecco che criticare la società liberale diventa parte integrante del mestiere. E poi c’è il fatto, decisivo, che il liberalismo dà, su troppi problemi, risposte che risultano insoddisfacenti per le ambizioni del, vero o presunto, o aspirante, maître-à-penser . Per il liberalismo, infatti, le persone non sono guidate nelle loro azioni dalla «falsa coscienza», dalla manipolazione di persuasori occulti o di invisibili strutture (capitalistiche o meno), impersonali e sovraindividuali. Le persone, per il liberalismo, sono individui dotati, fino a prova contraria, di autonomia e di razionalità. Ma accettare questa premessa disarmerebbe l’intellettuale che, interpretando il proprio ruolo come un ruolo di denuncia e «disvelamento», di messa a nudo di false coscienze e manipolazioni occulte ai danni dei più, può così rivendicare solo per se stesso quell’autonomia di pensiero e quella razionalità che nega a tutti gli altri.
Non ci si faccia ingannare dal fatto che oggi non si trova quasi più nessuno che non si definisca «liberale», salvo subito dopo contraddire tale affermazione con questa o quella presa di posizione di sapore illiberale sui diversi problemi pubblici, nazionali e internazionali. Le idee liberali, come dice Boudon, restano appannaggio di pochi. Per le stesse ragioni per cui la figura di Sartre continua a esercitare un grande fascino e quella di Aron no.
Non è difficile attualizzare questo discorso. L’ostilità per gli Stati Uniti che, in certi ambienti intellettuali, è sopravvissuta intatta alla fine della guerra fredda e al crollo del comunismo, si spiega per il fatto che la società americana è percepita, oggi come ai tempi della guerra fredda, come il principale santuario del liberalismo (se a causa di una qualche catastrofe scomparissero gli Stati Uniti, con loro probabilmente scomparirebbe, anche in Europa, l’idea stessa di società liberale), il che spiega un’ostilità che in quegli ambienti viene da lontano e che attualmente è solo malamente mascherata, nascosta dietro la comoda finzione di un rifiuto che si pretende indirizzato contro George W. Bush anziché contro l’America. Così come non è difficile vedere la mentalità illiberale che si nasconde dietro alle tristi affabulazioni (in puro stile sartriano) sulla «resistenza» irachena. Al fondo, c’è un atteggiamento che non è cambiato. Proprio di intellettuali, come scriveva Raymond Aron, «implacabili verso le debolezze delle democrazie ma indulgenti nei confronti dei più grandi crimini, purché perpetrati in nome delle buone dottrine».
0 Comments:
Posta un commento
<< Home