martedì, marzo 08, 2005

"A morte i critici!" di Massimiliano Parente

- grande articolo comparso su Il Domenicale di sabato 5/3/2005

Sono loro, insieme agli autori impomatati e agli editor furbi furbi, i colpevoli del degrado culturale. Nel mondo dei magazine e della televisione vince la mediocrazia. Anche nella letteratura. Parolai e parodisti della letteratura, arrampicatori, scrivani che più realisti di così non si può, autentiche soubrette della tivù che non conta. [continua a leggere cliccando su "leggi tutto!"]

Roba da pazzi. O meglio, roba da furbi. Perché se fossero veramente pazzi non sarebbero quello che sono, se non altro sarebbero pazzi, sarebbero almeno Dino Campana o Emanuel Carnevali. I giovani narratori autoriali autopromoter sono lo specchio degli editor che li pubblicano, riflessi a loro volta dall’establishment della critica che conta, che conta non in quanto autorevole ma in quanto occupante posti di potere. Quella che, dovendo trafficare con la cultura, lancia Faletti come il più grande scrittore italiano e tutti zitti, perché Faletti vende e “il pubblico è sovrano”, come dicono anche Simona Ventura e a ruota Antonella Clerici ai loro telespettatori disposti a pagare un euro di sms pur di decidere se far uscire Patrizia de Blanck o Tina “la vamp” o altre sciure o contesse del genere.

Lo Zeitgeist di D’Orrico
Poi dicono che in Italia c’è la crisi. Toglietegli pure i libri, agli italiani, ma non Faletti, non D’Orrico, e neppure il televoto. E Roberto Calasso deve rosicare pure lui, se è vero che l’Adelphi sta corteggiando Valeria Parrella, tanto per sdoganarsi verso la moda del giovanilismo autoriale e rendersi meno mitteleuropeo e più à la page, e se è vero che lei, la giovane giovanilista, essendo una fedele alla setta di Cassini, dirà di no.
Comunque non è colpa di Antonio D’Orrico se lui distingue i libri in facili e difficili, e non credo neppure ci siano dietro trame occulte e strategie politiche, casomai pura e semplice adesione allo Zeitgeist.

Weltanschauung da pizzeria
Uno legge quello che può, e quelli che resterebbero nella storia della letteratura dorrichiana sarebbero coloro che “scrivono facile”, essendo già Don DeLillo uno che scrive difficile (figurarsi Joyce o Faulkner), e quindi si comprende anche come il capocultura del magazine più importante in Italia, dopo Faletti e Avoledo, possa sbilanciarsi lanciando Alessandro Piperno come «il Proust italiano», perché se i criteri sono questi se ne deduce che deve aver letto bene Piperno (il cui libro è giusto un buon prodotto medio mondadoriano di Midcult autoriale, il narrativo confezionato per strizzare l’occhio alla cultura alta puntando a quella media e quindi a nessuna, come Boldini rispetto agli impressionisti), e per niente Proust.

Ma c’è poco da scandalizzarsi, anche nell’Ottocento non c’erano solo Manzoni e Foscolo e Nievo, anzi i più erano come Vincenzo Lancetti o Carlo Varese o Angelica Palli o Francesco Ottavio Renucci, e oggi le grupperie di aspiranti scrittori si contendono non una propria singola e inestirpabile ossessione letteraria, ma gli stessi pub e pizzerie e Weltanschauung, nonché la pubblicazione per Stile Libero, magari partendo da minimum fax, la Stile Libero dei piccoli, tutti uguali sia al traguardo che all’arrivo.

Il duo Repetti/Cesari
E quindi per Repetti e Cesari (gli editor di Einaudi) poca fatica scegliere il migliore, se ne prende uno che ha venducchiato lì e lo si porta su a Torino, che poi sarebbe sempre a Roma. Il problema è che poi neppure vendono, questi qui, magari seimila, ottomila copie, non a tal punto da potersi permettere di sorvolare sulla considerazione di Aldo Busi in Sodomie in corpo 11, ossia che «è ben triste scrivere per vendere, sacrificare tutto il resto, e poi non vendere».
Ma se pure vendessero, ragionando sui generi e sulle faletterie a buon mercato, il disastro della critica resta, perché una critica letteraria subordinata all’orientamento del pubblico che critica da quadrivio sarà mai? Critica cinematografica? Chi ci tiene alla lingua si ribella, questione di gusto, e anche di olfatto.

L’unico difetto di Carla Benedetti, che attaccando la «fabbrica del bestseller» dice cose buone e giustissime, è a mio avviso il rifiuto di un’idea gerarchica della letteratura fondata sulla forma, il perdersi nella distinzione (tutta ideologica) del popolare e del populistico, il rifiuto del pensiero che il pubblico è coglione quanto la critica giornalistica e quanto gli scrittori ruffiani che, privi d’intransigenza estetica, si piegano ormai spontaneamente, senza bisogno d’imporglielo, ai voleri degli editori (e già l’italico Svevo sapeva che «il pubblico è per sua natura corruttore»). Di sinistra o di destra poco importa.

Il “genere” si sfonda e rifonda
Perché non mi sembra che il suicidio della critica e il trionfo dei morti viventi stia nel distinguere il genere scadente di Dan Brown dal genere buono di Salgari, piuttosto nell’urgenza di separare l’entertainment dalla letteratura, e in secondo luogo l’Highbrow dal Middlebrow, anziché impelagarsi con la Lipperini nella diatriba sul Faletti popolare e sulla Fallaci populista. Chissenefrega della Lipperini.

Chi ci tiene alla lingua sa che la mistificazione è tutta qui. Stanno tentando, tutti insieme, i grandi e i piccini, gli editori e gli scrittorini, di depotenziare la letteratura, di radere al suolo qualsiasi categoria estetica, di cancellare la forma.
Alcuni, in buona e cattiva fede, parlano di “massimalismo” per ingrigliare la letteratura intransigente e non di genere e ricondurla a un genere che non esiste, come se la letteratura vera non lo fosse sempre stata, come se Dostoevskij, Flaubert, Sterne, Joyce, Faulkner, Proust, Kafka, Melville, Leopardi, Beckett, Fenoglio, Gadda, D’Arrigo, Busi, Moresco, e ogni scrittore che sia tale non abbia avuto un suo massimalismo inconciliabile con il resto.
Uno scrittore il genere o lo fonda o lo sfonda. Ma poiché pretendono di parlare di letteratura facendo a meno della lingua parlano senza dire niente, il Paradiso di Milton e le Illusioni di Balzac sono persi in partenza senza neanche tentare un saltino.

L’Italia è un paese fondato sul palato, gastronomico perfino in letteratura, ecco perché nessuno replica, nessuno si scandalizza se Faletti viene definito il più grande scrittore italiano. Gli addetti ai lavori, critici e scrittori, essendo appunto dei mestieranti dei contenuti, non sanno più la differenza tra dire “sempre caro mi fu quest’ermo colle” e “mi piace stare in collina”. Se parli di forma fanno no no con la testaccia, fanno spallucce, e tirano fuori l’avanguardismo e il Gruppo 63, come se l’antitesi di Covacich o della Mazzantini fossero ancora gli sperimentalismi sintattici di Nanni Balestrini e Angelo Guglielmi, o, in versione moderna, le cacchine di Aldo Nove.

Che poi basta con questa storia degli sperimentalismi, delle avanguardie, sciorinati come arma tanto dai critici quanto dagli scrittori per liberarsi del fardello di avere un’estetica e continuare a sfornare storielle vendibili, sceneggiature formato romanzo. Contenti tutti, editori che non ci rimettono e scrittori che nessuno studierà. Meglio un uovo oggi che una gallina domani, meglio ancora una batteria di galline sculatrici di uova in serie e per giunta starnazzanti (fossero almeno oneste, galline artigiane e senza pretese proustiane, come De Carlo, come Ken Follett, non ci sarebbe niente da ridire; qui invece quando non piagnucolano a ovetto partorito si danno pure le arie, spesso entrambe le cose insieme).

Studiassero almeno Verga
Raccontano storie e non sono neppure veristi, pensano che il verismo sia il racconto della realtà e perfino popolare. Se solo, da italiani, studiassero almeno Verga, Capuana e De Roberto capirebbero che anche all’epoca nella forma si giocava tutto, anche la verità, già del tutto “ricostruzione intellettuale” capace di scombinare e dissolvere le strutture narrative e, si chiedeva appunto Verga, «non si vede che il naturalismo è un metodo, che non è un pensiero, ma un modo di esprimere un pensiero?».
E la risposta contraria, quella aristocratica, superomistica, mistica ed estetizzante, era altrettanto linguistica, visto che D’Annunzio, ripristinando il narratore onnisciente e monologico, nell’aprile del 1894 ribatteva che «la massima parte dei nostri narratori e descrittori non adopera ai suoi bisogni se non poche centinaia di parole comuni, ignorando completamente la più viva e più schietta ricchezza del nostro idioma che qualcuno anche osa accusare di povertà e quasi di goffaggine…».

Mentre per Verga, grande avanguardista prima dell’avanguardia come qualsiasi vero scrittore anche non verista, «il naturalismo è forma, il misticismo può essere sostanza di un romanzo», e siccome i critici non lo capivano (troppo “difficile”, direbbe D’Orrico se fosse nato nell’Ottocento, parole incomprensibili e partenza in medias res e nessuna presentazione dei personaggi e senza il consueto «pepe della scena drammatica»), e siccome raccontando il popolo non è che fosse meno elitario e di D’Annunzio, diceva che in Italia «ci vuole tutta la capacità della mia convinzione, per non ammannire i manicaretti che piacciono al pubblico per poter ridergli poi in faccia». Ma quando mai, in letteratura, fuori dalla logica di genere e dai manicaretti, il tema per eccellenza di ogni scrittore non è stata la lingua? Oggi?

Artisti come la Ruta
E allora, signore e signori del contenutismo e della forma pacificata, dal momento che l’arte non è più l’intenzione formativa di cui parlava Pareyson, ce la spiegate la differenza (estetica, e quindi fondamentale) tra una Madonna con Bambino di Bellini e una Madonna con Bambino di Caravaggio?

Il massimalismo è un’invenzione come il postminimalismo, in letteratura esiste solo la letteratura e la densità della lingua che la esprime. Non c’è modo d’inventarsi una storia se non creando una lingua che restituisca il mondo nel suo essere assoluta.
Dovrebbe essere l’abc e invece oggi suona persino strambo e snob: sia Assalonne!, Assalonne! che il Pasticciaccio che la Recherche, ridotti a plot e sceneggiature masticabili, non sono niente, siccome le storie raccontabili sono sempre le stesse ma il modo di dirle è tutto, in Dostoevskij o Proust o nei Cahier di Valéry c’è ogni psicanalisi e sociologia a venire.

Tant’è che all’epoca del postminimalismo, a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, a causa dell’etichetta appiccicata s’incazzò con Fernanda Pivano quello sbagliato, David Leavitt, povero ingenuo, che scrivendo letteratura di genere rosa per gay aveva tutto da guadagnare da qualsiasi etichetta, basta andarsi a rileggere oggi Ballo di famiglia che furoreggiava prima nei campus americani poi negli atenei italiani per rendersi conto di trovarsi di fronte a una Carolina Invernizio per omosessuali postmoderni, mentre tacque Bret Easton Ellis, perché avendo scritto un capolavoro come American Pshyco doveva pur sapere che di quegli anni, e quindi per sempre, tra loro sarebbe rimasto lui e basta.

Così uno, per distrarsi dai pollai, accende la televisione e si trova, per esempio, Maria Teresa Ruta che dice “Noi artisti”. Sono artisti i presentatori, i cantantucoli, e guitti, comici, concorrenti di “reality”, soubrette e veline, se vai in televisione e non sei un giornalista (o peggio un “giornalista e scrittore”) o Lilli Gruber, sei un artista.
Non creano niente, ma essendo niente nel niente forse hanno ragione loro, e se hanno ragione loro la ragione sarà per una volta dalla parte del torto.

E di conseguenza per forza che si mettono a scrivere tutti, per forza che Walter Veltroni e Paolo Crepet e Vinicio Capossela e Ligabue si svegliano una mattina e si sentono scrittori pure loro. E un’altra mattina, qualche settimana fa, siccome Carla Benedetti ha parlato di genocidio culturale e voleva fare un discorso serio, si sveglia anche Edoardo Sanguineti per dire che Gramsci oggi avrebbe studiato le Lecciso, perché quella di Sanguineti è una vitaccia, ogni volta deve inventarsene una più postmoderna pur di farsi notare, mica facile.
Insomma: in televisione cinquemila decidono per tutti, in letteratura tutti decidono per cinquemila? Ma se pure vendessero, possibile che i critici siano così succubi del potere editoriale ed economico, ovvero non siano più critici ma portinaie del pubblico sovrano, e che anziché farsi dare una rubrica di libri su Dippiù come Crepet ce l’ha di psicoanalisi spicciola stiano là, belli piazzati sulle terze pagine dei giornali? Possibile che Gente e Novella 2000 e le pagine culturali del Corriere della Sera Magazine si rivolgano allo stesso pubblico? (possibile sì: infatti le lettrici casalingue scrivono a D’Orrico dicendo che Infinite Jest, il capolavoro di David Foster Wallace, è brutto perché difficile e lui risponde sì sì, brutta letteratura cervellotica e burocratica, e dunque ciucciatevi Faletti e Avoledo e adesso Piperno, perché giustamente se Faletti è il più grande scrittore italiano vivente Piperno, che mette più virgole e scrive frasi leggermente più lunghe del classico mainstream mondadoriano, sarà Proust o giù di lì).
E poi cosa sarà mai questo pubblico sovrano se non la mediocrazia al potere?

Tina Cipollari vs Piperno
E poi, quelli di sinistra e quelli perbene, hanno il coraggio di accusare le previsioni di Nietzsche di estremismo e protonazismo, quando temeva che la massificazione avrebbe portato gli spiriti liberi a diventare schiavi degli schiavi? Quando una come Tina Cipollari anziché fare la donna di servizio guadagna più di un professore? Quando sinceramente l’avrei licenziata pure come donna di servizio e invece me la trovo davanti ogni volta che mi siedo per sbaglio sul telecomando e si accende il televisore?

Neppure una questione di vendite, forse, perché poi se Alessandro Piperno, autore ancora non spocchioso di un normale prodotto di narrativa, è «il Proust italiano» e gli toccano tre pagine di Magazine prima ancora di uscire, Nicola Lagioia, con un romanzo notevole come Occidente per principianti, si becca solo la recensione in venticinque parole (difficilino?) e Antonio Moresco, con un capolavoro di mille pagine, neppure una riga (troppo difficile?). Vendite o non vendite la questione è annosa e resta storica la considerazione di Alberto Arbasino in Fratelli d’Italia, pagina 96, chiara e tonda, e oggi valida anche per le “signoremie” delle terze pagine, nessuna differenza tra pubblico e critica, essendo il pubblico sovrano: «D’altra parte il pubblico dei libri è il solo che cerca unicamente i prodotti più venduti dalla massa, non come quello dei ristoranti e delle boutiques che esige articoli di chic e di élite. E dunque le cabale degli editori devono pur tenerlo in vita, il povero morto: sotto gli ombrelloni, le lettrici di massa aspettano il romanzo più venduto alle folle, non certo un costume da bagno uguale alle altre! E hanno già buttato via la produzione dell’anno scorso!».

Oppure ambizioni mal riposte nella letteratura e autopromozione: gli scrittorini giovanil-senili del XXI secolo, ignorati dalla critica inesistente, si parlano tutti addosso, per sopperirla, e forse hanno pure ragione, scrivono tutti uguali, uguali tra loro e uguali a quelli osannati, dategli più spazio.
Wu Ming è la controcultura al potere, polpettoni metarivoluzionari e metapolitici e un gran chiasso in rete, mobilitazioni virtuali e non, mailing list infinite, paginate su Repubblica e quintali di interviste in quanto autori di bestseller.

Scarpa e ciabatta
Tiziano Scarpa dice che un editore tedesco si è rifiutato di tradurre il suo Kamikaze d’occidente perché la lingua era troppo difficile, se uno avendo letto il romanzo gli contesta che forse è il tedesco a essere troppo difficile per la sua lingua si offende, segno che la lingua conta anche per lui, e la lingua batte dove il dente duole, o viceversa.
Giuseppe Genna scrive thriller ma non sono thriller, sono romanzi metafisici, ultrapsichici, ultrasensoriali, ed è più sfacciato di tutti nella scalata, anziché piagnucolare nel suo sito celebra D’Orrico come critico coraggioso perché ha lanciato Faletti, Avoledo e ora anche Piperno.

Vuole tre pagine anche lui, o capitalizzare rendite di posizione per prendere il posto di D’Orrico, per far capire che un domani, ci fosse lui, non cambierebbe nulla. Sostiene che Faletti potrebbe anche essere il più grande scrittore italiano perché «restano le storie». Porta acqua al suo mulino, capisco, la cosa patetica è che non è smentito dal futuro, ma dal passato.

L’autoantologizzazione
Mauro Covacich scrive romanzi leggendo i giornali, anzi spremendone un succo con cui inchiostrare libri che dopo sei mesi, con i nuovi palinsesti televisivi, sono già scaduti.
Sui giornali si parla di Unabomber e scrive una storia su Unabomber, sui giornali e in tivù ci sono i reality e scrive la storia di un reality il cui autore, già che c’è, sarebbe Unabomber.

Nicola Lagioia è bravo, ma lui e Christian Raimo curano un’antologia per minimum fax dove si autoantologizzano e autosponsorizzano insieme all’allegra brigata del neorealismo applicato senza lingua e senza forma, tra cui Giordano Meacci, Serafino Murri, Paolo Cognetti, Francesco Pacifico, Ernesto Aloia e altri sfornatori spontanei, grafomanie da blog di vite senza vita ripassate nella padella chic dell’Altra America di Marco Cassini, e in ogni caso con un intento programmatico (e identico a quello della giuliva Benedetta Centovalli, anziché studiare letteratura deve avere anche lei studiato giornalismo pubblicato, pur avendo pubblicato Moresco, lei almeno un merito ce l’ha): «raccontarlo questo tempo». Come dire: siate giornalistici, il resto viene da sé.

L’ossessione necrofila
E così, tutti insieme appassionatamente, questo tempo lo raccontano tutti nello stesso modo, diarismi di vita quotidiana, io narranti spaesati, giovani alienati impiegati in spietate multinazionali, moralismi e pacifismi e bambinismi, tutto uguale ai tormenti della letteratura americana di venti o trent’anni fa, solo trent’anni dopo, e ambientati a Roma anziché a Los Angeles.
Oppure, nella variante impegnata, poiché non avranno letto Proust ma Debord sì, se non altro per sentito dire: storie e storielle sulla “società dello spettacolo”. E poi hanno il coraggio di citarti Fenoglio, quasi che non fosse stato un isolato, quasi che la sua estetica non brillasse quanto la sua etica, mandando affanculo gli allora conformisti dogmi della letteratura resistenziale e degli uomini e no vittoriniani.
Ai club di aspiranti autorini gaudenti e agli speculari club dei critici compiacenti si può anche dedicare un pensiero di Walter Siti, docente di letteratura italiana contemporanea e anche scrittore autore di Scuola di nudo (Einaudi, Torino 1994), romanzo, va da sé, poiché bello e denso, poco citato tanto dalla critica che dal pubblico (che sono la stessa cosa): «Tutti mi dicono che ho sbagliato ma non mi va di rispondere a gente che fra poco, cent’anni al massimo, sarà morta; discutere è un’ossessione necrofila».

2 Comments:

Anonymous Anonimo said...

se non fosse che non ho letto NESSUNO tra i romanzi/testi citati, sarei pure abbastanza d'accordo (soprattutto nell'affondo su Sanguineti ero ben presente!). ma è una cattiveria mal spesa: non vorrai che il D'orrico sostituisca il Pipper(n)o con uno dei tuoi. Ti ritroveresti dall'altra parte della barricata, e non credo cambierebbe di molto, il mondo ;-) Cmq hai la mia solidarietà..

10:08 AM  
Blogger I FEDERALISTI (Marco S. e Filippo C.) said...

Il Federalista ospita gli articoli di Massimiliano Parente in quanto legato da sincera amicizia verso lo scrittore. L'articolo da noi riproposto è di grande importanza, una summa del suo pensiero sulla letteratura. Pone questioni di grande rilevanza, salutari (se recepite e discusse) per un panorama letterario italiano discutibile.

10:42 AM  

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