Proprietà e libertà
- editoriale de Il Foglio (4/3/2005)
John Locke ha spiegato per quale ragione sia preferibile la tutela di principio e di fatto della proprietà privata: è l’unica vera garanzia che nessuno si impadronisca mai di tutto. Questo semplice argomento logico fu poi comprovato dall’andamento della storia. Dalla Russia alla Cambogia, lungo tutto il Novecento, l’abolizione dei diritti proprietari si è identificata con l’abolizione dei diritti. Alcune centinaia di milioni di uomini e donne, persa la miseria di un appezzamento di terreno o di una bottega artigiana o della proprietà del loro lavoro inteso come merce, sono stati privati della mobilità personale, della libertà di pensiero, della libertà di culto, della libertà di associazione, della libertà giuridica, della libertà politica, della libera mobilità personale, molto spesso anche della vita. Era successo proprio quel che scongiurava Locke, lodando l’individualismo possessivo: qualcuno, eliminando come dice Fausto Bertinotti la schiavitù feudale moderna del lavoro salariato e della proprietà privata, si era impossessato del tutto, e il tutto sotto un unico padrone risulta pesante quando gravi sulle spalle degli individui. [continua a leggere cliccando su "leggi tutto!"]
Lo scandalo della diseguaglianza gridato da Jean Jacques Rousseau e l’idea messianica elaborata da Karl Marx di un uomo nuovo liberato dal lavoro e dai rapporti sociali capitalistici sono gran pezzi di letteratura romantica e utopistica, ma fu Locke ad azzeccare la diagnosi, nella sua modestia illuminista. Sembrerebbe semplice a capirsi, ma Bertinotti recalcitra al pungolo della realtà, e intreccia davanti ai delegati del congresso di Rifondazione del comunismo, con l’aiuto cristiano e democristiano del professor Arturo Parisi, a nome di Prodi, un dialogo mitico sui domani che cantano e sui secoli a venire, sempre gravidi di beni in comune. Bertinotti è quel che si dice un gran signore, e per decenni ai comunisti di origine liberale come Giorgio Amendola i conservatori usavano la cortesia di dire, come oggi si dice a lui: “Ah, se tutti i comunisti fossero come lei!”. Lo perdoniamo dunque perché le moderne chattering classes hanno bisogno disperatamente di sempre nuove mitologie. Lo perdoniamo perché la storia di questo paese parla di tutele incrociate, di una proprietà indivisa che lascia spazio ai privilegi corporativi con l’assistenza dello Stato, non di libertà e responsabilità fondate sulla proprietà privata. Non faremo l’errore di metterci a fare i liberisti per burla in un paese dove il comunismo e il capitalismo sono da sempre una festa metaforica leggermente risibile. Però l’argomento di Locke sull’identità logica di proprietà e libertà non è male. Vorrà ammetterlo, se non altro per signorilità, il compagno segretario?
John Locke ha spiegato per quale ragione sia preferibile la tutela di principio e di fatto della proprietà privata: è l’unica vera garanzia che nessuno si impadronisca mai di tutto. Questo semplice argomento logico fu poi comprovato dall’andamento della storia. Dalla Russia alla Cambogia, lungo tutto il Novecento, l’abolizione dei diritti proprietari si è identificata con l’abolizione dei diritti. Alcune centinaia di milioni di uomini e donne, persa la miseria di un appezzamento di terreno o di una bottega artigiana o della proprietà del loro lavoro inteso come merce, sono stati privati della mobilità personale, della libertà di pensiero, della libertà di culto, della libertà di associazione, della libertà giuridica, della libertà politica, della libera mobilità personale, molto spesso anche della vita. Era successo proprio quel che scongiurava Locke, lodando l’individualismo possessivo: qualcuno, eliminando come dice Fausto Bertinotti la schiavitù feudale moderna del lavoro salariato e della proprietà privata, si era impossessato del tutto, e il tutto sotto un unico padrone risulta pesante quando gravi sulle spalle degli individui. [continua a leggere cliccando su "leggi tutto!"]
Lo scandalo della diseguaglianza gridato da Jean Jacques Rousseau e l’idea messianica elaborata da Karl Marx di un uomo nuovo liberato dal lavoro e dai rapporti sociali capitalistici sono gran pezzi di letteratura romantica e utopistica, ma fu Locke ad azzeccare la diagnosi, nella sua modestia illuminista. Sembrerebbe semplice a capirsi, ma Bertinotti recalcitra al pungolo della realtà, e intreccia davanti ai delegati del congresso di Rifondazione del comunismo, con l’aiuto cristiano e democristiano del professor Arturo Parisi, a nome di Prodi, un dialogo mitico sui domani che cantano e sui secoli a venire, sempre gravidi di beni in comune. Bertinotti è quel che si dice un gran signore, e per decenni ai comunisti di origine liberale come Giorgio Amendola i conservatori usavano la cortesia di dire, come oggi si dice a lui: “Ah, se tutti i comunisti fossero come lei!”. Lo perdoniamo dunque perché le moderne chattering classes hanno bisogno disperatamente di sempre nuove mitologie. Lo perdoniamo perché la storia di questo paese parla di tutele incrociate, di una proprietà indivisa che lascia spazio ai privilegi corporativi con l’assistenza dello Stato, non di libertà e responsabilità fondate sulla proprietà privata. Non faremo l’errore di metterci a fare i liberisti per burla in un paese dove il comunismo e il capitalismo sono da sempre una festa metaforica leggermente risibile. Però l’argomento di Locke sull’identità logica di proprietà e libertà non è male. Vorrà ammetterlo, se non altro per signorilità, il compagno segretario?
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