Fuori dal coro
Fuori dal coro di critiche aspre verso la nuova costituzione si pone Il Foglio con questo articolo in prima pagina:
La dittatura che non verra’
Dov’è lo scandalo della riforma costituzionale approvata in Senato dalla maggioranza? L’opposizione grida alla tirannide ma i poteri del premier sono più deboli di quelli previsti dalla sinistra in Bicamerale [continua a leggere cliccando su "leggi tutto!"]
Roma. La domanda da porsi di fronte al testo di riforma costituzionale approvato ieri dal Senato, con i voti della sola maggioranza, è se il centro e le sinistre guidati da Romano Prodi abbiano il diritto di gridare alla dittatura del premier e allo stravolgimento delle garanzie democratiche. Allarme che pretendono di fondare, all’ingrosso, sul pericolo che il premier possa disporre di prerogative onnipotenti: il fatto di essere direttamente collegato, nella sua elezione, all’elezione dei candidati alla Camera; il potere di nominare e revocare i ministri; la facoltà di sciogliere la Camera. Se il centrosinistra abbia ragione è un interrogativo che questo giornale aveva sollevato già un anno fa, e la risposta fu no, quando il testo era appena stato licenziato in prima lettura da Palazzo Madama e ancora non era iniziato il suo percorso di discussione e approvazione da parte della Camera.
Un anno fa il Foglio indicò nel premierato robusto e nel Senato muscolare gli esiti perfettibili di una riforma che Montecitorio ha successivamente emendato e corretto durante l’estate, pur senza stravolgerla, in una direzione decisamente contraria alle aspettative di chi, agli occhi delle opposizioni, starebbe vagheggiando una dittatura morbida del presidente del Consiglio. Tra il testo iniziale e quello di oggi, infatti, sono intervenute modifiche non trascurabili che hanno limitato più che ampliare le prerogative forti del premier. Una delle novità inserite dai deputati è la cosiddetta sfiducia costruttiva, fortemente voluta dall’Udc e proprio dai centristi fatta rientrare – si ricorderà – nel negoziato politico sorto all’interno della maggioranza durante la verifica di governo andata in scena l’estate scorsa. La sfiducia costruttiva rappresenta un contrappeso al potere di scioglimento della Camera da parte del premier. Perché offre ai deputati della maggioranza la possibilità di presentare una mozione di sfiducia (sottoscritta almeno dalla maggioranza dei componenti la Camera) in cui va indicato il nome del nuovo premier (che entro cinque giorni deve poi ottenere la fiducia della Camera sul suo programma). Lo ha notato perfino Mario Pirani ieri su Repubblica: “In una coalizione con ali estreme riottose, se una di queste vuol far saltare il banco, le basta votare anche da sola la sfiducia per ottenere lo scioglimento del Parlamento”.
Cosa disse Salvi nel 1997
Insomma si può sostenere che il premierato robusto concepito un anno fa si sia indebolito lungo le strettoie dei passaggi parlamentari? Sì. E c’è dell’altro. Tanto la prima soluzione uscita da Palazzo Madama, quanto e a maggior ragione quella poi addomesticata di cui oggi si discute con tanta foga, possono essere scambiate per il prodotto edulcorato della fallita Commissione bicamerale di cui recepivano e recepiscono ampiamente alcune proposte avanzate dal centrosinistra. A cominciare da primo bersaglio grosso su cui l’opposizione si sta esercitando in queste ore, e cioè il potere di scioglimento parlamentare affidato al premier. E’ senz’altro interessante, allora, sfogliare i verbali della Bicamerale del 1997. E scoprire, anzi riscoprire sulla materia oggi incandescente le ammissioni della più serena sinistra di allora: “In Italia non abbiamo normato in Costituzione il potere di scioglimento. Non credo si possa ritenere che in tutto il resto del mondo dove questi meccanismi sono previsti ci sia una situazione di anomalia politica, istituzionale, costituzionale e democratica”, ammetteva il relatore di sinistra Cesare Salvi nelle sedute 28 e 29 del maggio 1997. Con le ammissioni spassionate arrivarono le proposte per uscire dal vuoto normativo, ancora per bocca del relatore Salvi: “Come prevede il primo comma dell’art. 3, il primo ministro, sentito il Consiglio dei ministri, ma sotto la sua esclusiva responsabilità può sciogliere il Parlamento. A fronte della richiesta, e una volta acquisito il parere del Consiglio dei ministri, il decreto di scioglimento è un atto dovuto. Ricordavo all’inizio che si tratta di una soluzione che non credo debba suscitare eccessivi dubbi e preoccupazioni dal punto di vista della tenuta democratica del sistema. Mi limiterò ad osservare – diceva sempre Salvi – che quando qualcuno scioglie il Parlamento, non è che poi assume i pieni poteri e rinchiude i parlamentari in uno stadio di calcio: la parola viene data al popolo sovrano, e potrebbe verificarsi che, se la scelta non è ben calibrata, quello stesso popolo sovrano si formi anche un’idea ed esprima un giudizio sulla scelta stessa dello scioglimento e voti di conseguenza”. L’argomentazione trovò quindi formulazione compiuta: “Il Primo ministro, sentito il Consiglio dei ministri, sotto la sua esclusiva responsabilità, può chiedere lo scioglimento del Parlamento, che sarà decretato dal Presidente della Repubblica”. Il decreto di scioglimento fissa la data delle elezioni” (art. 3 comma 1 del testo Salvi). In tale quadro, coloro che adesso lamentano un declassamento dei poteri presidenziali, dovrebbero ricordare che sin dal gennaio 1996 Franco Bassanini, Cesare Salvi, Domenico Fisichella e Giuliano Urbani immaginavano in una bozza chiaroveggente una riforma delle istituzioni secondo la quale “al Presidente della Repubblica, privato delle funzioni di responsabilità che comportano una ingerenza nella formazione dei governi e nella soluzione delle crisi di governo (scioglimento del Parlamento), potrebbero essere attribuiti significativi poteri di garanzia”.
Quanto all’impianto generale del premierato, per comprendere le oscillazioni della sinistra si può addirittura ripartire dalla tesi numero 1 del programma elettorale dell’Ulivo per le elezioni politiche del 1996. Dov’era scritto: “Appare opportuna nel nostro paese l’adozione di una forma di governo centrata sulla figura del Primo ministro, investito a seguito di voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell’elettorato. A tal fine è da prevedere, sulla scheda elettorale, l’indicazione – a fianco del candidato del collegio uninominale – del partito della coalizione alla quale questi aderisce e del candidato premier da essi designato”. Posizione identica fu poi espressa, nel maggio del 1997, da Cesare Salvi in qualità di relatore alla seduta numero 28 della Commissione bicamerale. Salvi argomentò, citò, propose in modo dotto e asseverativo: “Nel sistema britannico è determinante il congiunto effetto di meccanismi elettorali e istituzionali: formalmente gli elettori in Gran Bretagna eleggono solo il deputato del loro collegio; vorrei chiedere se qualcuno di noi ritiene che vi sia un cittadino di quel paese che non ritenga di aver ‘eletto’ Tony Blair Primo ministro. In realtà il loro voto nasce in modo indiretto ma trasparente, esplicito e chiarissimo, la scelta, l’elezione del primo ministro. Noi siamo andati oltre quella logica, proprio perché sappiamo che nelle condizioni del sistema politico italiano e del sistema costituzionale italiano occorre introdurre elementi ulteriori. In questa bozza si propone che il nome del primo ministro sia presente nella scheda elettorale accanto al nome del candidato al collegio per l’elezione del Parlamento. Non credo che se si condivide la scelta dell’elezione contestuale tra primo ministro e la maggioranza, ci possono essere meccanismi costituzionali molto diversi da questi”. E’ ciò che l’attuale maggioranza ha realizzato otto anni dopo, se possibile accontentando anche le richieste di Armando Cossutta, presidente dei Comunisti italiani. Cossutta vede oggi nella riforma il “prodromo di una dittatura” ma nel maggio ’97, sempre in Bicamerale, si esprimeva così: “Sono favorevole al fatto – e lo considero molto significativo – che da ogni partito o da ogni raggruppamento che si presenta alle elezioni venga indicato agli elettori il nome del premier che si intende sostenere in caso di vittoria di quel partito o dello schieramento di cui quel partito fa parte. Ritengo persino utile che si indichi il nome di questo premier sulla scheda”.
Stabilito questo, e cioè che la sinistra eccede oggi nel criticare quanto ha proposto in passato, si può volgere lo sguardo al secondo bersaglio grosso, la devolution. Ma solo uno sguardo per evidenziare che sia le cose buone (come la clausola d’interesse nazionale con cui scongiurare o dirimere eventuali conflitti d’attribuzione) sia le sgangheratezze del testo (come la potenziale concorrenza tra centro e periferia in materia d’istruzione) più che dividere il paese rimediano a una “pulsione suicida” (Mario Pirani). Quella con cui, al termine della scorsa legislatura, il centrosinistra modificò unilateralmente e in direzione centrifuga il titolo V della Costituzione. Con il risultato che, prima della riforma della Cdl, l’unica fonte autorevole per farsi un’idea di come funziona il federalismo all’italiana è stata la giurisprudenza prodotta dalla Corte costituzionale impegnata a pronunciarsi sui conflitti istituzionali tra Stato e Regioni.
(24/03/2005)
La dittatura che non verra’
Dov’è lo scandalo della riforma costituzionale approvata in Senato dalla maggioranza? L’opposizione grida alla tirannide ma i poteri del premier sono più deboli di quelli previsti dalla sinistra in Bicamerale [continua a leggere cliccando su "leggi tutto!"]
Roma. La domanda da porsi di fronte al testo di riforma costituzionale approvato ieri dal Senato, con i voti della sola maggioranza, è se il centro e le sinistre guidati da Romano Prodi abbiano il diritto di gridare alla dittatura del premier e allo stravolgimento delle garanzie democratiche. Allarme che pretendono di fondare, all’ingrosso, sul pericolo che il premier possa disporre di prerogative onnipotenti: il fatto di essere direttamente collegato, nella sua elezione, all’elezione dei candidati alla Camera; il potere di nominare e revocare i ministri; la facoltà di sciogliere la Camera. Se il centrosinistra abbia ragione è un interrogativo che questo giornale aveva sollevato già un anno fa, e la risposta fu no, quando il testo era appena stato licenziato in prima lettura da Palazzo Madama e ancora non era iniziato il suo percorso di discussione e approvazione da parte della Camera.
Un anno fa il Foglio indicò nel premierato robusto e nel Senato muscolare gli esiti perfettibili di una riforma che Montecitorio ha successivamente emendato e corretto durante l’estate, pur senza stravolgerla, in una direzione decisamente contraria alle aspettative di chi, agli occhi delle opposizioni, starebbe vagheggiando una dittatura morbida del presidente del Consiglio. Tra il testo iniziale e quello di oggi, infatti, sono intervenute modifiche non trascurabili che hanno limitato più che ampliare le prerogative forti del premier. Una delle novità inserite dai deputati è la cosiddetta sfiducia costruttiva, fortemente voluta dall’Udc e proprio dai centristi fatta rientrare – si ricorderà – nel negoziato politico sorto all’interno della maggioranza durante la verifica di governo andata in scena l’estate scorsa. La sfiducia costruttiva rappresenta un contrappeso al potere di scioglimento della Camera da parte del premier. Perché offre ai deputati della maggioranza la possibilità di presentare una mozione di sfiducia (sottoscritta almeno dalla maggioranza dei componenti la Camera) in cui va indicato il nome del nuovo premier (che entro cinque giorni deve poi ottenere la fiducia della Camera sul suo programma). Lo ha notato perfino Mario Pirani ieri su Repubblica: “In una coalizione con ali estreme riottose, se una di queste vuol far saltare il banco, le basta votare anche da sola la sfiducia per ottenere lo scioglimento del Parlamento”.
Cosa disse Salvi nel 1997
Insomma si può sostenere che il premierato robusto concepito un anno fa si sia indebolito lungo le strettoie dei passaggi parlamentari? Sì. E c’è dell’altro. Tanto la prima soluzione uscita da Palazzo Madama, quanto e a maggior ragione quella poi addomesticata di cui oggi si discute con tanta foga, possono essere scambiate per il prodotto edulcorato della fallita Commissione bicamerale di cui recepivano e recepiscono ampiamente alcune proposte avanzate dal centrosinistra. A cominciare da primo bersaglio grosso su cui l’opposizione si sta esercitando in queste ore, e cioè il potere di scioglimento parlamentare affidato al premier. E’ senz’altro interessante, allora, sfogliare i verbali della Bicamerale del 1997. E scoprire, anzi riscoprire sulla materia oggi incandescente le ammissioni della più serena sinistra di allora: “In Italia non abbiamo normato in Costituzione il potere di scioglimento. Non credo si possa ritenere che in tutto il resto del mondo dove questi meccanismi sono previsti ci sia una situazione di anomalia politica, istituzionale, costituzionale e democratica”, ammetteva il relatore di sinistra Cesare Salvi nelle sedute 28 e 29 del maggio 1997. Con le ammissioni spassionate arrivarono le proposte per uscire dal vuoto normativo, ancora per bocca del relatore Salvi: “Come prevede il primo comma dell’art. 3, il primo ministro, sentito il Consiglio dei ministri, ma sotto la sua esclusiva responsabilità può sciogliere il Parlamento. A fronte della richiesta, e una volta acquisito il parere del Consiglio dei ministri, il decreto di scioglimento è un atto dovuto. Ricordavo all’inizio che si tratta di una soluzione che non credo debba suscitare eccessivi dubbi e preoccupazioni dal punto di vista della tenuta democratica del sistema. Mi limiterò ad osservare – diceva sempre Salvi – che quando qualcuno scioglie il Parlamento, non è che poi assume i pieni poteri e rinchiude i parlamentari in uno stadio di calcio: la parola viene data al popolo sovrano, e potrebbe verificarsi che, se la scelta non è ben calibrata, quello stesso popolo sovrano si formi anche un’idea ed esprima un giudizio sulla scelta stessa dello scioglimento e voti di conseguenza”. L’argomentazione trovò quindi formulazione compiuta: “Il Primo ministro, sentito il Consiglio dei ministri, sotto la sua esclusiva responsabilità, può chiedere lo scioglimento del Parlamento, che sarà decretato dal Presidente della Repubblica”. Il decreto di scioglimento fissa la data delle elezioni” (art. 3 comma 1 del testo Salvi). In tale quadro, coloro che adesso lamentano un declassamento dei poteri presidenziali, dovrebbero ricordare che sin dal gennaio 1996 Franco Bassanini, Cesare Salvi, Domenico Fisichella e Giuliano Urbani immaginavano in una bozza chiaroveggente una riforma delle istituzioni secondo la quale “al Presidente della Repubblica, privato delle funzioni di responsabilità che comportano una ingerenza nella formazione dei governi e nella soluzione delle crisi di governo (scioglimento del Parlamento), potrebbero essere attribuiti significativi poteri di garanzia”.
Quanto all’impianto generale del premierato, per comprendere le oscillazioni della sinistra si può addirittura ripartire dalla tesi numero 1 del programma elettorale dell’Ulivo per le elezioni politiche del 1996. Dov’era scritto: “Appare opportuna nel nostro paese l’adozione di una forma di governo centrata sulla figura del Primo ministro, investito a seguito di voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell’elettorato. A tal fine è da prevedere, sulla scheda elettorale, l’indicazione – a fianco del candidato del collegio uninominale – del partito della coalizione alla quale questi aderisce e del candidato premier da essi designato”. Posizione identica fu poi espressa, nel maggio del 1997, da Cesare Salvi in qualità di relatore alla seduta numero 28 della Commissione bicamerale. Salvi argomentò, citò, propose in modo dotto e asseverativo: “Nel sistema britannico è determinante il congiunto effetto di meccanismi elettorali e istituzionali: formalmente gli elettori in Gran Bretagna eleggono solo il deputato del loro collegio; vorrei chiedere se qualcuno di noi ritiene che vi sia un cittadino di quel paese che non ritenga di aver ‘eletto’ Tony Blair Primo ministro. In realtà il loro voto nasce in modo indiretto ma trasparente, esplicito e chiarissimo, la scelta, l’elezione del primo ministro. Noi siamo andati oltre quella logica, proprio perché sappiamo che nelle condizioni del sistema politico italiano e del sistema costituzionale italiano occorre introdurre elementi ulteriori. In questa bozza si propone che il nome del primo ministro sia presente nella scheda elettorale accanto al nome del candidato al collegio per l’elezione del Parlamento. Non credo che se si condivide la scelta dell’elezione contestuale tra primo ministro e la maggioranza, ci possono essere meccanismi costituzionali molto diversi da questi”. E’ ciò che l’attuale maggioranza ha realizzato otto anni dopo, se possibile accontentando anche le richieste di Armando Cossutta, presidente dei Comunisti italiani. Cossutta vede oggi nella riforma il “prodromo di una dittatura” ma nel maggio ’97, sempre in Bicamerale, si esprimeva così: “Sono favorevole al fatto – e lo considero molto significativo – che da ogni partito o da ogni raggruppamento che si presenta alle elezioni venga indicato agli elettori il nome del premier che si intende sostenere in caso di vittoria di quel partito o dello schieramento di cui quel partito fa parte. Ritengo persino utile che si indichi il nome di questo premier sulla scheda”.
Stabilito questo, e cioè che la sinistra eccede oggi nel criticare quanto ha proposto in passato, si può volgere lo sguardo al secondo bersaglio grosso, la devolution. Ma solo uno sguardo per evidenziare che sia le cose buone (come la clausola d’interesse nazionale con cui scongiurare o dirimere eventuali conflitti d’attribuzione) sia le sgangheratezze del testo (come la potenziale concorrenza tra centro e periferia in materia d’istruzione) più che dividere il paese rimediano a una “pulsione suicida” (Mario Pirani). Quella con cui, al termine della scorsa legislatura, il centrosinistra modificò unilateralmente e in direzione centrifuga il titolo V della Costituzione. Con il risultato che, prima della riforma della Cdl, l’unica fonte autorevole per farsi un’idea di come funziona il federalismo all’italiana è stata la giurisprudenza prodotta dalla Corte costituzionale impegnata a pronunciarsi sui conflitti istituzionali tra Stato e Regioni.
(24/03/2005)
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