lunedì, febbraio 28, 2005

Era inevitabile che accadesse...

- lettera di Yasha Reibman a Segio Romano (Corriere della Sera del 26/2/2005)

Caro Romano, molti di noi stanno assistendo con crescente preoccupazione a quella che inizia a sembrarci da parte sua una vera e propria aggressione. Nei soli ultimi quattro giorni lei ha colpito due volte. Lunedì ha paragonato Israele ai terroristi libanesi di Hezbollah, mentre giovedì ha riproposto la tesi della particolare presenza di ebrei nei centri di potere e «il potere, ahimé, suscita sempre gelosia, dispetto, antipatia». [continua a leggere cliccando su "leggi tutto!"]
Che dire? Dispiace dover ricordare che gli ebrei, come tutti gli altri cittadini quando vivono in Paesi liberi e democratici, lavorano, scrivono, fanno affari, studiano o insegnano. Alcuni hanno successo, altri meno. Chi odia i giudei prova a cercarli nelle banche, nelle università, nei giornali e fa notare al mondo la loro presenza. Riaccende così l'antico pregiudizio del complotto, del potere occulto, della lobby. Pregiudizio che tutti conosciamo, che tutti in Europa e nel mondo arabo abbiamo ricevuto in eredità e che è quindi pronto a riattivarsi. Con questa convinzione, di una particolare presenza ebraica nei gangli del potere, gli antisemiti hanno spesso giustificato i propri sentimenti nei confronti degli ebrei. Il problema non è allora se il direttore di una banca o di un telegiornale sia ebreo, ma che qualcuno trovi che questo sia importante, che vada controllato e, nel caso, «denunciato» alla pubblica opinione. Il problema non è se Israele abbia o no in questi anni compiuto degli errori, magari drammatici, ma l'utilizzo di espedienti retorici per mettere sullo stesso piano i terroristi e la democrazia di Gerusalemme, l'unica società aperta in Medio Oriente. Colpisce poi la scelta di tempo; proprio quando maggiori sembrano essere le speranze di pace, lei decide di proporre ai lettori questo offensivo e falso confronto. A dire la verità, quanti di noi hanno potuto seguirla negli ultimi anni non sono sorpresi, ma ricordano la sua «Lettera a un amico ebreo» pubblicata qualche anno fa. Ricordano ad esempio che l'Halachà, la Legge rabbinica, fu da lei definita come «la dittatura delle fastidiose regole ebraiche, un catechismo fossile di una delle più antiche, controverse e retrograde fedi religiose mai praticate in Occidente». Ricordano anche che per lei «la memoria delle umiliazioni subite ed un senso di superiorità intellettuale hanno creato una nazione bellicosa, imperialista, arrogante, e, come disse De Gaulle nel 1967, "dominatrice" ... L'israeliano è l'Ubermensch (il superuomo) del Vicino Oriente». Parole che fanno pensare a un paragone tra israeliani e nazisti e che fanno tornare alla mente Primo Levi: «confondere (gli assassini) con le loro vittime è una malattia morale oppure un modo affettatamente estetico o un morboso segno di complicità; e soprattutto è un servizio gratuito offerto (lo si voglia o no) ai negatori della verità». Sarò sincero con lei, non sarebbe un buon segno se alle sue parole reagissimo solo noi ebrei e non altre voci della società italiana.
Yasha Reibman - portavoce Comunità ebraica, Milano

Le lascio la parola. È giusto che questa volta tocchi a lei anche perché avrò altre occasioni di risponderle. Vorrei soltanto che lei mandasse la sua lettera a Jean Daniel. (Sergio Romano)
F.